di Contropiano
È avvilente dover analizzare una proposta di risoluzione per la “flessibilità” nell’uscita anticipata dal lavoro avanzata da un consulente del governo in un’intervista. Parole scritte sull’acqua, insomma, smentibili il giorno o la settimana dopo.
Eppure una logica, al di là delle soluzioni tecniche che saranno decise alla fine delle inevitabili finte “trattative”, appare nettamente delineata: chi vuole o deve andare in pensione prima dell’età mostruosa fissata dalla “riforma Fornero” (67 anni e 6 mesi) pagherà di tasca propria l’intero importo corrispondente alla durata dell’”anticipo”. Anzi, pure qualche cosa di più.
Prendiamo le uniche parole chiare pronunciate da Tommaso Nannicini, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio che coordina i “tecnici” al lavoro sullo schema di intervento:
«Ci sono tre categorie. La prima è quella delle persone che hanno una preferenza ad andare in pensione prima, ad esempio la nonna dipendente pubblica che vuole accudire i nipotini. La seconda è quella di chi ha necessità di andare in pensione anticipatamente, in quanto ha perso il lavoro e non ha ancora i requisiti d’uscita.
La terza categoria sono i lavoratori che l’azienda vuole mandare in pensione prima per ristrutturare l’organico aziendale. Ebbene, si potrebbe provare a creare un mercato di anticipi pensionistici, che oggi non c’è, coinvolgendo governo, Inps, banche, assicurazioni. In questo schema, la prima categoria può andare in pensione ma con una penalizzazione leggermente più forte. Alla seconda categoria la penalizzazione gliela paga in buona parte lo Stato. Per la terza sono le aziende a coprire i costi dell’anticipo. In sintesi non sarebbe lo Stato a versare l’anticipo, ma si limiterebbe a coprire una parte dei costi con un’assicurazione a garanzia del rischio morte. Al momento è solo una delle ipotesi allo studio, ma potrebbe essere quella che fa quadrare il cerchio tra la forte richiesta di flessibilità e la sostenibilità della finanza pubblica».
La terza categoria sono i lavoratori che l’azienda vuole mandare in pensione prima per ristrutturare l’organico aziendale. Ebbene, si potrebbe provare a creare un mercato di anticipi pensionistici, che oggi non c’è, coinvolgendo governo, Inps, banche, assicurazioni. In questo schema, la prima categoria può andare in pensione ma con una penalizzazione leggermente più forte. Alla seconda categoria la penalizzazione gliela paga in buona parte lo Stato. Per la terza sono le aziende a coprire i costi dell’anticipo. In sintesi non sarebbe lo Stato a versare l’anticipo, ma si limiterebbe a coprire una parte dei costi con un’assicurazione a garanzia del rischio morte. Al momento è solo una delle ipotesi allo studio, ma potrebbe essere quella che fa quadrare il cerchio tra la forte richiesta di flessibilità e la sostenibilità della finanza pubblica».
Sorvoliamo per carità di patria sulle “nonne della pubblica amministrazione che vorrebbero occuparsi dei nipotini” – è notorio che in realtà sono i figli delle suddette nonne ad avere necessità di una baby sitter gratuita, vista la carenza di asili nido pubblici e il costo, minimo ma pensate, di una baby sitter “di mercato” – e vediamo la logica generale.
Lo Stato non ci vuol mettere un euro, o almeno il minimo possibile. Se le persone attualmente al lavoro decidessero di andare in pensione con tre anni di anticipo (il massimo indicato dallo stesso Nannicini), anche rimettendoci una quota rilevante dell’assegno pensionistico (tra il 9 e il 12%, a seconda della “penalizzazione” che verrà decisa), ci sarebbe comunque un aggravio immediato della spesa pubblica nell’ordine dei 6-7 miliardi di euro l’anno. Il risparmio sarebbe altrettanto certo, ma sul lungo periodo. Nell’immediato, infatti, l’Inps dovrebbe erogare un maggior numero di assegni pensionistici, anche se nel giro di qualche anno gli assegni più “leggeri” si farebbero sentire positivamente sui conti di Boeri e engativamente nelle tasche dei pensionati “flessibili”.
Come si può fare a quadrare il cerchio?
Semplice: paga tutto il pensionato. Nella prima delle tre ipotesi, infatti, l’Inps non gli darebbe assolutamente niente. La pensione gli verrebbe mensilmente da una banca, con cui dovrebbe sottoscrivere una sorta di mutuo. Poi, nel momento in cui raggiunge la fatidica età pensionabile di legge, subentrerebbe l’Inps, con una trattenuta mensile da girare alla banca. In pratica il pensionato paga due volte: la prima, spalmando su più anni un reddito pensionistico comunque ridotto rispetto al valore attuale; la seconda, pagando alla banca gli interessi sul “prestito” ottenuto.
Lo sceriffo di Nottigham non poteva pensarla meglio.
Il secondo caso è in realtà quello degli “esodati”, ossia quei lavoratori che sono andati prima in cassa integrazione e poi in mobilità in seguito ad accordi di prepensionamento siglati tra l’azienda e lo Stato, al ministero del lavoro. Ma che, per effetto della legge Fornero, si sono improvvisamente ritrovati su un “ponte” che finiva nel vuoto: senza più il lavoro, ma anche senza la pensione. Qui – purtroppo per Nannicini, Poletti e Renzi – non ci può essere nessuna “soluzione di mercato”. Le banche, notoriamente, non fanno mutui ai disoccupati. Tanto meno se ultrasessantenni… Quindi dovrà intervenire per forza l’Inps, e il costo preventivato si aggira sul miliardo.
La terza ipotesi sembra più un caso di scuola, che non una possibilità concreta. L’azienda infatti dovrebbe pagare per uno o tre anni la pensione – decurtata, sia chiaro – a lavoratori che ha deciso di mandar via. Vi sembra realistico?
Fonte: Contropiano
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.