di Anna Lombroso
Il 26 aprile con tempestiva puntualità (la professione di antifascismo, se proprio è necessario, si esercita una volta l’anno, come quella di ricordare, di rispettare le donne, di esprimere solidarietà per i profughi, di sentire la responsabilità di conservare l’ambiente per noi e chi verrà dopo etc etc), la commissione Giustizia di Palazzo Madama ha approvato all’unanimità un emendamento di Giacomo Caliendo di Forza Italia (assorbito poi da un testo analogo della relatrice Rosaria Capacchione del Pd) al disegno di legge che dovrebbe introdurre nel codice penale l’aggravante di negazionismo, modificando in senso restrittivo l’applicazione la legge Mancino del ’93, escludendo dal perimetro della punibilità, tutte le opinioni espresse non «pubblicamente», depenalizzando le condotte con fini discriminatori e di violenza oggi sanzionate se l’istigazione avviene tra le mura di casa, tramite mail, via cellulare non intercettato, e così via.
Dovessi pensare a un tag per questo post, mi verrebbe subito in mente “ipocrisia”, quella che ispira famosi detti popolari: i panni sporchi si lavano in casa, ad esempio, talmente abusati che “casa propria” sono diventati anche i partiti, il Parlamento, i comuni, a misura della privatizzazione della politica, che applica il metro della disuguaglianza alla sfera personale. Sicché la privacy dei potenti va tutelata fino allo spasimo, compresa la rilevanza di parentele ingombranti, familiarità sospette, conti correnti e partecipazioni azionarie opachi, mentre la nostra viene invasa legalmente se non legittimamente tramite videosorveglianza continuativa, circolazione dei nostri dati, svendita a prezzi di liquidazione delle nostre preferenze e dei nostri consumi, ingerenze prepotenti nelle nostre esistenze per condizionare e condannare inclinazioni, scelte, dalla culla e ancora prima, alla bara.
Insomma l’emendamento fa intendere che non c’è nulla di male ad educare i propri figli al razzismo, alla xenofobia, alla violenza, che non è perseguibile che babbi e mamme raccontino la sera ai loro figlietti la fiaba che i lager di ieri e quelli di oggi, appena meno cruenti, erano pacifici insediamenti che ospitavano lavoratori indolenti, comunque in numero ridotto ancorché artatamente gonfiato da una interpretazione partigiana e faziosa della storia, perché appunto questa pedagogia venga somministrata in tinello, favorita da preziosi incunaboli della stampa di regime, documentari delle tv ormai unanimemente intente alla grande opera di definitiva pacificazione. Come se la formazione della prole, sempre meno delegata a un sistema di istruzione avvilito, impoverito e mortificato, come se lo sviluppo intellettuale e l’ammaestramento morale dei figli non fossero le più pubbliche delle attività, perché dovrebbe preparare, con l’esempio prima di tutto, ad essere cittadini, ad essere liberi, ad essere rispettosi degli altri, della memoria collettiva, della lezione della storia, della verità.
Le persone libere nutrono sempre molti dubbi nei confronti delle censure, preferendo loro l’informazione, l’istruzione, la cultura della bellezza, del ricordo, del passato, perché insegni a non ripetere orrori, viltà, offesa. Ancora di più c’è da avere dubbi quando nascondono l’intento di creare graduatorie e gerarchie tra le responsabilità: quelle collettive, quelle pubbliche, quelle personali, in modo da ripeterle poi per persuadere che possano essere sottoposte alle stesse classificazioni verità, realtà, doveri, diritti.
Fonte: Il Simplicissimus
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