di Giuseppe Acconcia
Ci ha pensato il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi a scaricare tutte le responsabilità sui media locali in merito alla ricerca della verità sulla tragica morte di Giulio Regeni. «I media hanno diffuso menzogne sul caso e hanno creato un problema», ha dichiarato al-Sisi. Di sicuro questa è una prima ammissione delle bugie e dei depistaggi diffusi a profusione dai media egiziani e con i quali i media italiani hanno fatto i conti negli ultimi mesi.
Eppure non dobbiamo mai dimenticare che gli stralci di prove e le inchieste pubblicati tra gli altri da Masry al-Youm e Akbar al-Youm riportavano spesso fonti della procura e del ministero dell’Interno egiziano. Quindi accusando i media al-Sisi accusa sé stesso e l’intero sistema del regime militare che ha fatto quadrato intorno al suo capo per giustificare qualsiasi malefatta del regime spesso senza neppure che il presidente si sia mobilitato per chiederlo.
Regeni: un caso mediatico
Ma che il caso Regeni fosse un caso mediatico senza precedenti è stato chiaro sin dal primo minuto per tutte le ramificazioni che ha raggiunto in poche ore. Prima di tutto sui social network, il profilo internazionale del giovane dottorando friulano aveva immediatamente ispirato una campagna su Twitter #WhereisGiulio, messa subito a tacere. In verità che la propaganda del regime egiziano dovesse essere immediatamente intercettata e respinta era chiaro dal primo minuto quando invece ha prevalso il silenzio e la notizia neppure è stata diffusa pubblicamente.
E così, quando la direzione de il manifesto, dopo il ritrovamento del cadavere, ha deciso di pubblicare il suo ultimo articolo sui sindacati indipendenti, il velo del silenzio è stato in parte squarciato. Molti hanno tentato di strumentalizzare la notizia sulla richiesta di usare uno pseudonimo, venuta dal Cairo, cercando di distrarre l’attenzione sulla domanda poco significativa se Giulio Regeni fosse o meno un collaboratore del giornale. Questo punto ha motivato una campagna sui social network che ha criticato la copertura mediatica in Italia della tragica fine di Giulio Regeni.
Non solo, pochi giorni prima, un gruppo di accademici aveva avviato una raccolta firme Il male della banalità che criticava i media mainstream italiani e la loro copertura degli eventi inerenti il Medio Oriente. Proprio la rappresentazione mediatica della tragica fine del dottorando friulano ha contribuito alla fine della campagna, confermando che ricerca e giornalismo procedono con tempi e binari davvero diversi.
Nonostante apparisse chiaro dagli ambienti che Giulio Regeni frequentava per motivi di ricerca fino a che punto la polizia egiziana abbia commesso un errore fermandolo e torturandolo, è iniziata una ridda di voci giornalistiche, alimentate da diversi quotidiani, sulle reali ragioni che lo avevano portato in Egitto. La xenofobia diffusa al Cairo in seguito al colpo di stato militare del 2013 ha fatto il resto e quindi ogni straniero, soprattutto se occidentale, poteva essere una spia. I quotidiani italiani hanno fatto a gara per trovare prove di queste illazioni per settimane fino ad accusare gli stessi supervisor dello studente friulano colpevoli, secondo loro, di averlo mandato in Egitto senza le dovute precauzioni. In realtà, mai si era verificato prima di allora un caso del genere nei confronti di uno straniero e quindi la tortura e morte di Giulio Regeni non erano a priori prevedibili.
La rappresentazione della stampa italiana ed egiziana
I media pubblici italiani hanno inizialmente deciso di mantenere un profilo basso sulla tragica fine del giovane dando un certo credito alle voci che venivano dalle autorità egiziane e dalle autorità diplomatiche in Italia sulla presunta collaborazione del Cairo con il team investigativo in Egitto in un rincorrersi continuo di notizie e smentite che perdevano di mira l’obiettivo principale: la ricerca della verità che diventava più lontana insieme alla mancanza di collaborazione effettiva degli inquirenti egiziani. Fino alla pubblicazione di un’intervista senza contraddittorio sul quotidiano La Repubblica, che è stato scelto come giornale di riferimento per la ricerca della verità, con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi.
Tutto è cambiato invece solo quando la famiglia Regeni è intervenuta in prima persona sul caso, sostenendo che non fosse un episodio isolato e fugando ogni dubbio sulle attività di ricerca di Giulio Regeni in Egitto. A quel punto l’attenzione della stampa mainstream italiana, prima di tutto del Corriere della sera, si è focalizzata sulle sparizioni forzate in Egitto, sulla repressione dei diritti umani. Insomma il colpo di stato militare del 2013, che pochi avevano raccontato come tale, è finalmente diventato mainstream, anche per gli editorialisti del New York Times.
Pure la stampa egiziana si è svegliata in qualche forma. Da quanto tempo non si sentivano tante voci chiedere di cancellare le menzogne e riportare la verità dei fatti? È bastato richiamare l’ambasciatore italiano in Egitto per comunicazioni urgenti e temporanee che tutto il circo mediatico internazionale ha considerato al-Sisi in chiare difficoltà. Dal 2013, le voci critiche sono state messe a tacere in Egitto. La satira di Bassem Youssef è stata censurata e il presentatore costretto a lasciare il paese. Anche la televisione privata Ontv non ha più dato conto di proteste e manifestazioni (sempre meno numerose) degli ultimi due anni.
Eppure in qualche modo l’aria mediatica sta cambiando al Cairo. Il presentatore Ossama Kamel ha chiesto alle autorità egiziane di dire la verità su Giulio, mentre Azza el-Hennawy è stata licenziata per aver criticato al-Sisi. Infine, il caporedattore di al-Ahram, Mohammed Ahd Elhadi Allam, si è espresso direttamente contro tutti i depistaggi del regime. Più in generale, l’Egitto dovrebbe in questa fase considerare quanto i media pubblici continuino a censurare casi di desaparecidos e la repressione politica nel paese.
Le ramificazioni della rappresentazione mediatica internazionale del caso Regeni devono essere un monito qualora in futuro dovessero verificarsi tragici eventi simili. Prima di tutto è utile diffondere immediatamente la notizia di una sparizione forzata in maniera pubblica, per contrastare i silenzi e la propaganda di regime. In secondo luogo, è importante valutare gli effetti positivi e negativi della circolazione parziale ma capillare delle informazioni sui social network. E in terzo luogo, è vitale non rincorrere i depistaggi dei regimi militari, incluso l’ultimo che condanna i media per scagionare le autorità, ma procedere con inchieste serie e libere che tengano sempre a mente le diffuse responsabilità del sistema dei repressori.
Fonte: minimaetmoralia.it
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.