di Rocco Ronchi
Da tempo, ormai, intorno all’opera di Jacques Lacan si è andato concentrando un interesse che va ben oltre i confini della psicanalisi, di cui Lacan è stato un impareggiabile maestro. Lo si deve, senza dubbio, al fatto che alla formazione di quel pensiero hanno concorso in modo determinante altri saperi: dall’antropologia alla linguistica, alla filosofia, per arrivare, infine, alle matematiche e alla biologia. Tuttavia, non è soltanto in ragione di questa ricchezza di riferimenti teorici che la psicanalisi lacaniana è così trasversalmente presente nel dibattito intellettuale: la sua centralità si deve a un’altra ragione, una ragione speculativa. Per quanto possa essere forte la tendenza a evadere i problemi essenziali, ogni epoca è infatti chiamata prima o poi a una resa dei conti. Ci sono urgenze che non dipendono dalla buona volontà degli uomini ma sono inscritte nella natura delle cose. Ci sono domande che devono essere poste. Anche le epoche, come gli esseri umani, percepiscono che il tempo è scarso e che, come disse Seneca, la vita rischia esaurirsi in una vana attesa, senza mai essere stata veramente vissuta.
La domanda speculativa è allora quella che chiede cosa sia veramente reale per noi, cosa «valga» per noi come indiscutibilmente reale. Per un lunghissimo periodo della storia questa domanda ha avuto come risposta: Dio. Dio era il massimamente reale per un uomo del Medioevo. La modernità gli ha sostituito la storia, l’uomo al lavoro, artefice del proprio destino. Quanto ai tempi attuali, i post-moderni” ci hanno insegnato che è il senso dell’irrealtà a prevalere. Neanche le catastrofi sembrano sfuggire a questa dimensione immaginaria. Ma nessuna epoca, nemmeno la nostra, può differire all’infinito la questione del reale. Prima o poi lo deve incontrare. Jacques Lacan diceva di sé, come teorico, di aver inventato un solo concetto: quello di «reale». Per questo è diventato un imprescindibile punto di riferimento del pensiero speculativo contemporaneo. Ne è prova anche l’ultimo lavoro di Alex Pagliardini, Il sintomo di Lacan Dieci incontri con il reale (Galaad edizioni, pp. 382, euro 16,00). L’autore è uno psicanalista, non un filosofo, dunque la sua è una preoccupazione soprattutto clinica, riguarda la domanda che viene posta da qualcuno che si presenta nel suo studio portando con sé un disagio di cui ignora la causa. Tuttavia, se leggiamo la definizione di pratica analitica alla fine del primo capitolo, dedicato alla nozione di trauma, non abbiamo dubbi sull’intenzione speculativa che attraversa il testo di Pagliardini. «La pratica analitica – scrive – deve produrre l’impossibile, incontrarlo come tale». Lo stile espositivo è perentorio: invece di nascondersi nelle pieghe della sfuggente scrittura lacaniana o, ancora peggio, di mimarla, Pagliardini osa dire in modo diretto, prendendo posizione.
In quella secca definizione si dice innanzi tutto che la meta della pratica analitica è incontrare il reale come tale; e si dice anche che il reale è quell’impossibile che bisogna produrre nel corso dell’analisi. L’analisi, infatti, non è dialogo, non è conversazione, non mira alla produzione di un senso condiviso. L’analisi non è «esperienza vissuta». Tutte queste interpretazioni, care a una certa psicanalisi «umanistica», perdono di vista l’elemento propriamente traumatico, il valore di «evento» che una buona analisi dovrebbe invece sempre comportare e che lo psicanalista, soprattutto se lacaniano, deve sapere produrre. «Impossibile» è così una buona approssimazione alla natura del trauma, perché indica l’accadere di qualcosa che eccede la capacità rappresentativa del soggetto: non è l’irreale, ma il reale portato al suo punto di incandescenza, un reale così massimamente reale da non essere più nemmeno a misura del soggetto (non più «possibile», quindi), un reale che incide il soggetto, marchiandolo a fuoco. La filosofia speculativa questo impossibile se lo era figurato nella forma del sublime, che – dopotutto – non è altro se non l’eccesso del reale all’opera. Per questo Pagliardini non considera il trauma nella sua dimensione empirica: non è un fatto – scrive – non è un accadimento nel tempo lineare (la cosiddetta scena primaria che segnerebbe l’esistenza del nevrotico).
Il suo piano è, come direbbero i filosofi, trascendentale. In alcune, intense pagine, Pagliardini mostra come il trauma non smetta mai di accadere nel corso di «una vita», proprio perché esso, come tale, ha la forma dell’accadere «puro» e non della cosa «accaduta». La cattiva psicanalisi è invece quella che confonde i due piani mettendo il blablabla del «senso» dove c’è «evento» e cercando di addomesticare l’impossibile. Le parole che nel testo di Pagliardini ricorrono con più insistenza nei momenti topici della sua argomentazione provengono tutte dalla filosofia: l’inconscio, scrive, è atto e, precisamente atto in atto, la sua dimensione non è quella della materia ma quella della energheia, dell’attività. Esso va colto sotto il profilo del divenire, ma è un divenire, scrive Pagliardini, che non è uno scorrere bensì un fieri, vale a dire una causalità creatrice di effetti imprevedibili. Non è solo questione di echi evocati bergsoniani o gentiliani, peraltro insoliti tra gli psicanalisti lacaniani, ma di una proposta (indiretta) di revisione della metafisica sottesa dalla psicanalisi: se la pratica analitica incontra il reale, corrispondendo in tal modo a un’urgenza che l’epoca sente ormai come indifferibile, dovrà dotarsi di una concettualità adeguata a questo scopo speculativo.
Fonte: il manifesto
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