di Chiara Saraceno
La distinzione tra lavoro autonomo, libero-professionale e dipendente in questi anni si è fatta sempre più tenue. Mentre grandi professionisti hanno clienti regolari e fidelizzati che garantiscono loro entrate prevedibili e continuative, oltre che elevate, molti lavoratori che un tempo sarebbero stati alle dipendenze, e che di fatto lavorano come se fossero alle dipendenze per quanto riguarda orari e rapporti di subordinazione, sono costretti a una condizione di prestatori d’opera individuali: impiegati dell’anagrafe o delle poste, post doc all’università, ricercatori in istituti di ricerca impiegati con contratti di lavoro a progetto periodicamente rinnovati; muratori, camerieri, baristi, braccianti, scaricatori nei mercati generali con Partita iva, o “somministrati”, o pagati con voucher.
Non c’è occupazione che non veda, accanto a contratti di lavoro standard, rapporti di lavoro che, pensati per una nicchia o casi particolari, stanno diventando la norma in un mercato del lavoro sempre più selvaggio, ove la competizione è sempre meno sulle competenze e il prodotto, ma tra chi accetta le condizioni di lavoro meno vantaggiose.
Una competizione che ormai non mette più solo gli operai polacchi o albanesi contro quelli italiani, ma è anche interna alla offerta di lavoro italiana, specie tra i giovani di entrambi i sessi e le donne di ogni età (queste ultime costituiscono il 50 per cento di tutti coloro che lavorano a voucher), ma anche tra chi ha perso il lavoro in età matura ed è ancora lontano da una pensione i cui criteri di accesso si spostano sempre più in avanti. Stante la scarsità di domanda di lavoro, i lunghi anni di crisi che hanno indebolito la capacità di tenuta e redistributiva delle economie famigliari, la fila di chi accetta un lavoro purchessia (alla faccia di chi li definisce schizzinosi) è sempre lunga. E i datori di lavoro ne approfittano. Anni fa la parola d’ordine lanciata ai giovani (e alle donne di ogni età) era di diventare imprenditori di se stessi.
Una competizione che ormai non mette più solo gli operai polacchi o albanesi contro quelli italiani, ma è anche interna alla offerta di lavoro italiana, specie tra i giovani di entrambi i sessi e le donne di ogni età (queste ultime costituiscono il 50 per cento di tutti coloro che lavorano a voucher), ma anche tra chi ha perso il lavoro in età matura ed è ancora lontano da una pensione i cui criteri di accesso si spostano sempre più in avanti. Stante la scarsità di domanda di lavoro, i lunghi anni di crisi che hanno indebolito la capacità di tenuta e redistributiva delle economie famigliari, la fila di chi accetta un lavoro purchessia (alla faccia di chi li definisce schizzinosi) è sempre lunga. E i datori di lavoro ne approfittano. Anni fa la parola d’ordine lanciata ai giovani (e alle donne di ogni età) era di diventare imprenditori di se stessi.
Oggi questa “imprenditività” sembra doversi concentrare, almeno per una buona parte, nell’affannosa ricerca di spezzoni di lavoro e nella accettazione della “creatività” contrattuale dei datori di lavoro. La società liquida non è solo quella dell’individuo diventato puro consumatore bulimico e senza comunità di cui parla Zygmunt Bauman. è anche quella dei lavoratori senza appartenenza e senza identità come tali, usa e getta.
Fonte: Left
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