di Luigi Montagnini
Una mattina, appena alzato, scopro che l’ospedale in cui avevo lavorato è stato distrutto. Un nodo al cuore. Avverto forte il bisogno di abbracciare le persone che insieme a me hanno avviato quel progetto e che ora stanno provando il mio stesso nodo al cuore.
Vorrei inginocchiarmi lungo il corridoio che migliaia di barelle hanno attraversato per portare un ferito in sala operatoria e per riconsegnarlo al reparto di degenza o, talvolta, quando non siamo riusciti a salvargli la vita, alle lacrime della sua famiglia. 30mila barelle almeno, dall’agosto del 2011, quando l’ospedale è stato aperto, alle 2 di notte del 3 ottobre 2015, quando è stato bombardato. 15mila interventi chirurgici custoditi dalla stessa sala operatoria in cui ero accorso, appena atterrato, per operare una bimba di 3 anni con un braccio strappato da una bomba. Sala operatoria che ora è sventrata, senza più un soffitto e sul cui pavimento, insieme ai detriti, è rimasto il sangue di colleghi medici e infermieri.
Nord-est dell’Afghanistan. Dai le spalle alle pendici dell’Hindu Kush e vai in su, verso il confine con il Tagikistan. Lì c’è Kunduz. Centomila abitanti circa, che a guardarli si fatica a capire di che cosa vivano e a quale etnia appartengano. Da secoli snodo commerciale e avamposto militare, ora terreno di scontro tra talebani e forze governative afgane.
Nel 2011, Medici Senza Frontiere ha aperto a Kunduz un Centro traumatologico, l’unico nella regione, adottando le stesse regole di sempre: cure di qualità, gratuite e per tutti, che si tratti di civili (la maggioranza come in ogni maledetta guerra) o di militari, senza distinzione di schieramento; non ammettere armi all’interno del recinto ospedaliero; comunicare a tutte le parti coinvolte chi siamo, che cosa facciamo e dove siamo. Erano state fornite nuovamente le coordinate GPS dell’edificio principale pochi giorni prima del bombardamento: gli scontri militari erano aumentati di intensità nelle ultime settimane di settembre, e si voleva essere sicuri che non ci fossero incidenti. Non ci sono stati incidenti, infatti, ma un attacco consapevole: il nostro ospedale è stato colpito ininterrottamente per più di un’ora e la violenza si è concentrata con precisione sul fabbricato segnalato con le coordinate GPS, all’interno del quale vi era la sala operatoria. Qualcosa sta cambiando nelle dinamiche della guerra: bombardare gli ospedali in piena attività è diventata una tragica moda che imperversa dallo Yemen alla Siria. Si calpestano i principi fondamentali del diritto internazionale, trasformando gli ospedali in obiettivi strategici per piegare una popolazione, i pazienti ricoverati in criminali da sopprimere e gli operatori sanitari in colpevoli da punire.
L’attacco all’ospedale di Kunduz costituisce però un precedente orrendo per le sue proporzioni: siamo stati bombardati dalle forze aeree degli Stati Uniti, che hanno ucciso 42 persone tra staff e pazienti. I comandi militari coinvolti hanno parlato prima di errore, poi di azione mirata a colpire militari armati dentro l’ospedale, poi di nuovo di errore. Serve un’indagine seria e indipendente per accertare responsabilità e motivi. È la cima di una montagna, è un fondale marino, è una chiesa, la sala operatoria. Un santuario che non tollera mancanze di rispetto. Lo è per me che vi lavoro: lo devo alle donne e agli uomini che giacciono nudi e inermi e che affidano a me la loro vita. Deve esserlo per chiunque: non si può accettare che un ospedale in esercizio diventi un obiettivo militare, ovunque si trovi.
Fonte: Altreconomia
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