di Alfonso Gianni
Se guardiamo alla sostanza delle cose e non solo alle parole, l’Italia si è infilata dritta come un fuso in una nuova avventura bellica. In Libia per giunta. Il passato ritorna. Gli Stati uniti hanno programmato un intervento aereo la cui durata sarà come minimo di un mese. Ma vi è già chi, nell’establishment militare americano, fa capire che è solo un termine indicativo, fatto più per essere prolungato che rispettato. Si invoca, e il governo italiano si è subito allineato, la risoluzione 2259 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, attraverso la solita cavillosa interpretazione del paragrafo 12 della medesima, che la Russia apertamente contesta, pretendendo invece una nuova eventuale decisione ad hoc da parte del supremo organo dell’Onu.
In questo quadro il coinvolgimento italiano è inevitabile se non viene espressa una volontà esplicitamente contraria. Le ragioni sono di natura militare e politica. Un’azione così prolungata nel tempo richiede l’utilizzo delle basi di Aviano e di Sigonella.
Particolarmente di quest’ultima, distante solo una ventina di minuti di volo dall’obiettivo. D’altro canto la Sicilia è sempre stata considerata oltreoceano una «portaerei americana» nel Mediterraneo, espressione mutuata da una quasi identica di Mussolini riferita a tutt’altro contesto.
A parte la parentesi dello scontro Craxi-Reagan di una trentina di anni fa, ha continuato ad esserlo fino ai giorni nostri. D’altro canto se l’Italia vuole realmente candidarsi alla guida della missione Liam per la “stabilizzazione” del paese libico, qualche contributo lo deve dare. In altre parole se gli scarponi non sono sul terreno, le basi aeree italiane sono già in guerra.
Ma chi lo ha deciso e chi lo avrebbe dovuto decidere? E’ ridicolo che siano solo le commissioni Esteri e Difesa riunite delle due camere ad essere “informate”, mentre l’Aula si deve accontentare di un question time della ministra Pinotti. Non si tratta di riferire ma di trovare la sede della decisione.
Si dirà che non è la prima volta che si verifica l’ esautoramento del Parlamento da una delle decisioni più esiziali per un paese, l’entrata in guerra comunque mascherata – il termine intervento umanitario è immancabilmente ricomparso nelle dichiarazioni di Gentiloni. Ma non è una buona ragione per perseverare.
Quindi non solo è giusto e necessario che si chieda l’immediata convocazione delle camere per discutere il ruolo dell’Italia nella vicenda libica, ma che si torni a riflettere sulle conseguenze che la “deforma” della Costituzione può avere in questo campo.
Infatti tra i 47 articoli revisionati dalla legge Renzi-Boschi vi è anche l’articolo 78 che concerne la dichiarazione dello stato di guerra. Per la precisione l’attuale testo, ancora vigente fino (e speriamo anche dopo) al pronunciamento referendario recita «Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari», mentre quello deformato dice: «La Camera dei deputati delibera a maggioranza assoluta lo stato di guerra e conferisce al Governo i poteri necessari».
Come è noto attorno a questo articolo si è sviluppato negli anni un larghissimo dibattito, dai tempi della Costituente fino a quello degli anni migliori del movimento pacifista. Riassumerlo qui sarebbe un’ambizione smodata e insensata.
Ma è certo che tale formulazione era stata pensata dai costituenti come una deroga solo temporanea ed eccezionale, come strumento ultimo di difesa e non di offesa, al principio di ripudio della guerra sancito dall’Articolo 11 facente parte dei principi fondamentali della Carta. Il potere di attivare lo stato di guerra spettante al Parlamento si configura quindi come atto politico per eccellenza, presuppone e coinvolge principi etici, un’accurata valutazione del quadro politico e militare internazionale, una discussione grave e approfondita circa la necessità del l’instaurazione del regime giuridico di eccezionalità.
Discussione tanto più impegnativa e imprescindibile se si tiene conto delle modalità extraistituzionali, a livello internazionale e interno, con cui le decisioni belliche vengono assunte e i relativi mascheramenti linguistici con cui vengono giustificate. Per questa ragione più d’uno ha pensato che prevedere una maggioranza superiore per l’elezione, almeno in prima battuta, del Presidente della Repubblica a quella della dichiarazione dello stato di guerra fosse una assurdità. E vi sono state iniziative di parlamentari, anche trasversali, ma inascoltate, che hanno cercato di porre rimedio chiedendo che la dichiarazione dello stato di guerra potesse avvenire solo sulla base di un voto dei due terzi dei componenti le camere.
Il testo della “deforma” costituzionale peggiora in modo evidente questo quadro. Non solo e non tanto perché è solo una Camera che viene chiamata a pronunciarsi. Infatti il Senato continua ad esistere ed entra in decisioni chiave, come le leggi di revisione costituzionale, ma non su questa che è la più importante di tutte. Ma perché la nuova norma costituzionale, applicata in un contesto nel quale è entrato in vigore l’Italicum, fa sì che la maggioranza assoluta richiesta sia già data all’atto stesso della nascita della camera – grazie al premio di maggioranza dato a una minoranza – e che appartenga a un solo partito.
In questo modo la dichiarazione di guerra è affare esclusivo del partito di maggioranza relativa e, visti gli attuali chiari di luna, di un uomo solo, cioè il suo segretario. Potente regressione della democrazia e della civiltà giuridica, che possiamo e dobbiamo fermare con un forte No nel prossimo autunno.
Fonte: il manifesto
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