di Giandomenico Crapis
Le nomine dei direttori dei tg confermano come i partiti e la Rai rimangano avvinti da un rapporto inossidabile, resistente alle ritornanti dichiarazioni di autonomia degli amministratori di turno, malinconica espressione, quando va bene, di un whishful thinking brutalmente smentito dai fatti. Mai come questa volta (un Presidente giornalista già in forza all’azienda e dal profilo indipendente, un Amministratore delegato venuto dall’esterno, lontano dalle ragnatele dei rapporti e dei condizionamenti di viale Mazzini) la Rai poteva battere un colpo, difendere le sue prerogative dalla politica.
Forse mai come questa volta l’azienda di servizio pubblico poteva dotarsi di una squadra di professionisti che rispondessero ad un piano editoriale e non ai desiderata dei partiti e del governo. Il risultato è invece una delle pagine più grigie nella storia dei rapporti tra politica e tv.
Con Siciliano presidente, il primo Ulivo, si disse con «profilo basso», nominò Rodolfo Brancoli al Tg1, Mimun al Tg2 e Annunziata al Tg3. Poi con Zaccaria mandò Marcello Sorgi, Borrelli e infine Gad Lerner a dirigere la testata ammiraglia, confermò Mimun al Tg2 ripescando Nuccio Fava al Tg3 (poi sostituito con Ennio Chiodi). Ancora sotto la presidenza Zaccaria il Tg1, dopo Lerner, venne affidato alle mani esperte di Albino Longhi. Il centrosinistra dell’Unione mise Gianni Riotta alla guida del Tg 1, confermando Mazza al Tg2 e Antonio Di Bella al Tg3 ( il primo nominato dal centrodestra qualche anno prima, il secondo nel 2001 dal Cda presieduto da Zaccaria).
Certo di lottizzazione si trattò allora, come di lottizzazione si tratta oggi. Ma se si guarda alla qualità delle nomine targate Dall’Orto e Verdelli, oltre a constatare amaramente quanto sia ancora lontano il giorno in cui la Rai sarà messa al sicuro dalla politica, si deve ammettere come, al confronto, la lottizzazione praticata dal centrosinistra nel passato si presentasse con altri attributi professionali. E se ai tempi del primo governo Prodi ci fu chi, deluso, parlò di «lottizzazione elegante», oggi verrebbe da dire che nemmeno lo stile è stato fatto salvo, in una tornata che contiene, come ha sottolineato più di un commentatore, un evidente imprinting governativo; ancorpiù nel forzoso avvicendamento alla direzione del Tg3 dove il tentativo di «normalizzazione» appare palese. La riforma della Rai di dicembre e le scelte di oggi misurano ancora una volta, alla luce delle pratiche basse della politica, il fallimento della promessa rivoluzione renziana.
A questo punto non si capisce quale ruolo abbia davvero Verdelli, chiamato da Dall’Orto a ridisegnare l’informazione dell’azienda pubblica, e con lui qualche altro bel nome del giornalismo italiano, con cui rischia di apparire come il fiore all’occhiello di un vestito impresentabile, quando non corresponsabile di scelte che ricalcano logiche che ci auguravamo di non dover rivedere.
Fonte: il manifesto
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