di Ilvo Diamanti
È difficile capire cosa spinga tante persone, spesso di origine maghrebina, ma nate e vissute in Europa - e soprattutto in Francia - a provocare tante vittime, tanto sangue. Me lo sono chiesto nei giorni scorsi, passeggiando lungo la Promenade des Anglais, a Nizza. Dove, poche settimane fa, un uomo, alla guida di un camion, ha compiuto un massacro, uccidendo oltre 80 persone. La città, oggi, sta cercando di riprendere un ritmo di vita normale. Per quanto possibile. D’altronde, il lungomare e la spiaggia sono affollati come prima. Segno che neppure il terrorismo riesce a sconvolgere le nostre routine. Tuttavia, questa città è alla ricerca di un senso. I terroristi evocano la “guerra jihadista”.
Ma è una spiegazione insufficiente. Perché il legame degli autori degli attentati recenti con l’IS e con gli jihadisti appare, spesso, debole. (Magari non nel caso di Nizza.) Infatti, si tratta di persone che non mostrano convinzioni religiose particolarmente intense. Sovente, si tratta di “convertiti”, in tempi recenti. La cui appartenenza all’Islam radicale e all’IS viene “recitata” in video e, quindi, rilanciata in rete. Talora dall’IS stessa. Perché la via del terrore per-seguita dello Stato Islamico incrocia, puntualmente, la via mediatica. Tuttavia, questi “nuovi terroristi” esibiscono la bandiera dell’IS ex-post. La stessa IS, non di rado, conferma la matrice degli attentati e degli attentatori solo “dopo”. Così si delinea un insidioso “patto di sangue”, letteralmente. Fra gli autori degli attentati, che ottengono un’identità, una legittimazione. E l’IS, lo Stato Islamico. Che dà senso “globale” alla “sua” guerra. Più che il mandante, appare il mito che giustifica il terrore, prodotto, talora, da “terroristi ex-post”. Così, appare concreto il rischio di perdersi, in una spirale di orrore e di in-comprensione. E diventa ancor più urgente trovare il senso dell’odio che sale intorno a noi.
Ma è una spiegazione insufficiente. Perché il legame degli autori degli attentati recenti con l’IS e con gli jihadisti appare, spesso, debole. (Magari non nel caso di Nizza.) Infatti, si tratta di persone che non mostrano convinzioni religiose particolarmente intense. Sovente, si tratta di “convertiti”, in tempi recenti. La cui appartenenza all’Islam radicale e all’IS viene “recitata” in video e, quindi, rilanciata in rete. Talora dall’IS stessa. Perché la via del terrore per-seguita dello Stato Islamico incrocia, puntualmente, la via mediatica. Tuttavia, questi “nuovi terroristi” esibiscono la bandiera dell’IS ex-post. La stessa IS, non di rado, conferma la matrice degli attentati e degli attentatori solo “dopo”. Così si delinea un insidioso “patto di sangue”, letteralmente. Fra gli autori degli attentati, che ottengono un’identità, una legittimazione. E l’IS, lo Stato Islamico. Che dà senso “globale” alla “sua” guerra. Più che il mandante, appare il mito che giustifica il terrore, prodotto, talora, da “terroristi ex-post”. Così, appare concreto il rischio di perdersi, in una spirale di orrore e di in-comprensione. E diventa ancor più urgente trovare il senso dell’odio che sale intorno a noi.
La spiegazione più frequentata fa riferimento alla marginalità sociale – e non solo - dei terroristi, di origine, perlopiù, nordafricana. Cresciuti nelle banlieue. Spesso finiti in carcere, per vicende di ordinaria criminalità. Lì hanno incontrato l’Islam radicale, come ha osservato Farhad Koshrokhavar, sociologo iraniano, direttore di ricerca all’EHESS di Parigi. E hanno coltivato identità e reti di appartenenza. Non a caso le banlieue, poco più di 10 anni fa, nel 2005, furono teatro delle rivolte che sconvolsero Parigi, dopo la morte di due ragazzi, a Clichy-sous-Bois, inseguiti dalla polizia. Tuttavia, la rivolta contro un destino di marginalità pre-scritto trova un senso più preciso in prospettiva “generazionale”. Gli attentatori sono, infatti, giovani, se non giovanissimi, spesso di origine maghrebina. Ma “francesi”, perché nati e cresciuti in Francia. Non sempre e non necessariamente nelle banlieue. Infatti, come ha osservato lo stesso Koshrokhavar, l’Islam radicale ha attecchito anche fra i giovani musulmani delle classi medie. Olivier Roy, anch’egli sociologo, presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze, parla di una generazione perduta e sperduta. Alla ricerca di un’identità che la società e per prima la famiglia non sono state in grado di fornire loro.
Così, il richiamo all’Islam, alla religione della tradizione, diventa una mappa per ritrovare la strada. “Una” strada. Solo che non si tratta dell’Islam “coltivato” dai genitori. Integrato e moderato. Ma dell’Islam mitico, delle origini. L’Islam radicale, predicato da imam “estremisti”. Offre loro motivo e riferimenti per realizzarsi. “Contro” i genitori. Il terrorismo francese, secondo Roy, più che una guerra di civiltà diventa, così, una rivolta generazionale. Perché, osserva Roy, i giovani terroristi sono tutti francesi di seconda generazione. Hanno studiato in Francia, in mezzo ad altri giovani francesi, di cui condividono la lingua, luoghi e stili di vita. Ma sono afflitti da un’identità incompiuta. “Marginale”. Non si sentono e non vengono sentiti francesi. E lo stesso avviene nei Paesi d’origine. In cui non si riconoscono. Dove non vengono riconosciuti. Così vivono in una condizione di non-identità. A differenza dei genitori, che hanno cercato, da sempre, il riconoscimento nel Paese dove sono “migrati”. Il rapporto dei giovani con i genitori si traduce, così, in una rottura, anzitutto, religiosa. E l’Islam radicale diventa il segno, il mezzo per combattere la loro “rivolta generazionale”. Che è, anche, culturale. Sociale. Una rivolta sanguinosa. Perché i giovani francesi di origine maghrebina uccidono i genitori metaforicamente. Di fatto, uccidono persone che non hanno altra colpa se non di essere “francesi”. Occidentali. E se sono, a loro volta, arabi e islamici, non è un problema. Al contrario. Per loro, il problema è l’integrazione degli arabi. E attraverso la versione estrema dell’Islam cercano una risposta all’assenza di riferimenti di valore, al “nichilismo radicale” che li affligge.
Difficile non pensare alla distanza dai “nostri” giovani. Italiani. Nonostante vivano anch’essi un’identità imperfetta. Frustrati dal deficit di futuro. Visto che, in larga misura, sanno che non raggiungeranno la stessa posizione sociale dei genitori. A differenza delle generazioni precedenti. Mentre intorno a loro – e a noi – si diffonde un clima di nichilismo. Non ancora radicale né, per ora, violento come quello che affligge i coetanei francesi di seconda generazione. Perché in Italia la soluzione perseguita è diversa. I giovani: preferiscono andarsene altrove. Emigrare. E - sempre più spesso – non ritornano. Così gli italiani di seconda generazione, i figli di immigrati, sempre più numerosi in Italia, correranno meno il rischio della marginalità. Perché stanno divenendo maggioranza. Nelle scuole primarie e secondarie di molte regioni. Resteranno, fra qualche anno, gli unici “giovani” italiani in Italia. Comunque, i più numerosi. E se vorranno affrontare i problemi – economici, ma, prima ancora, di identità e riconoscimento – che affliggono la loro generazione, dovranno seguire l’esempio degli altri giovani italiani. E dei propri genitori. Cioè: emigrare. Riprendere il viaggio. Alla ricerca di un futuro sempre più ipotetico. Sempre più passato.
Fonte: La Repubblica
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