di Alberto Negri
Il nuovo fronte libico aperto dagli americani ci coglie impreparati. Per i libici è un dramma - un Paese in dissoluzione tra scorribande delle milizie, criminalità, Isis e interventi esterni - per l’Italia continua a essere un dilemma: cosa fare in Libia? Non lo sappiamo con chiarezza ora, come non lo sapevano cinque anni fa quando i francesi diedero il via ai bombardamenti per sostenere i ribelli di Bengasi. Per la verità allora la Francia non ci avvisò neppure con una telefonata, questa volta gli americani ci hanno messo in allerta, senza peraltro consultarci: ma non doveva essere l’Italia il Paese-guida di un’ipotetica missione Onu? Dobbiamo avere interpretato male nei mesi passati le dichiarazioni forse un po’ troppo ottimiste del governo.
La Libia rappresenta la sconfitta più sconcertante dalla Seconda guerra mondiale. Cinque anni fa l’Italia non si oppose ai raid francesi e abbandonò al suo destino, piaccia o meno, l’alleato più stretto che aveva nel Mediterraneo. Andreotti negli anni’70 salvò il Colonnello da un golpe britannico, Craxi lo mise sull’avvio dai bombardamenti di Reagan nel 1986. Trent’anni dopo la Libia non solo è un rebus, spaccata tra Tripolitania e Cirenaica, ma i nostri alleati ci prendono pure in giro: la Francia ufficialmente sostiene il governo di unità nazionale di Tripoli, in realtà combatte con il generale Khalifa Haftar, appoggiato dall’Egitto di Al Sisi, per difendere i suoi interessi energetici e strategici.
I nostri alleati della Nato fanno i loro interessi ed è un caso, non una scelta, che a volte coincidano con i nostri. Come raccontava recentemente anche l’ex ministro degli Esteri Franco Frattini il governo nel 2011 fu obbligato a partecipare alle missioni aeree della Nato perché l’Alleanza aveva messo tra i possibili bersagli anche i terminali petroliferi dell’Eni. Insomma ci stavano letteralmente per bombardare. Cosa è successo dopo lo sappiamo: oltre alla capra, cioè a gran parte del petrolio e del gas (che pure continua a scorrere), abbiamo perso i cavoli, ovvero la sicurezza sulla Sponda Sud, una sorta di Tortuga dell’immigrazione illegale con drammi devastanti e la perdita di migliaia di vite.
In poche parole ci hanno portato la destabilizzazione in casa con enormi costi umani e materiali. È tutto da vedere se questi raid americani, programmati soltanto per un mese, possano essere risolutivi. In teoria rafforzano il governo di Al Sarraj, quindi anche indirettamente la nostra posizione in Tripolitania. Ma se l’Isis non venisse sconfitta gli effetti di questo intervento potrebbero essere negativi: alcune fazioni, come i Fratelli Musulmani, non sono d’accordo con la mossa di Sarraj di chiedere aiuto agli americani. Non solo: nella Sirte non ci sono solo foreign fighters ma tribù libiche e questo complica assai la questione.
Fidarsi degli americani è bene, non fidarsi è meglio, dopo i tanti guai combinati dalle nostre parti. Tra l’altro nell’86 si inventarono di sana pianta la storia dei missili di Gheddafi su Lampedusa per vedere come reagivano i partiti in Italia. L’unità di intenti nel Paese si ottiene chiarendo i nostri interessi, non appoggiandosi, con un vizio antico, a potenze esterne.
Certo l’Italia è un Paese amico degli Stati Uniti, non è la Turchia di Erdogan. Eppure ogni tanto bisognerebbe imparare anche dai peggiori. Per concedere agli Usa la base di Incirlik contro il Califfato Erdogan ci ha impiegato un anno di trattative e la prima cosa che ha fatto è stato bombardare non i jihadisti ma i curdi schierati contro l’Isis. È vero che ne ha subito le conseguenze: ha perso la guerra in Siria contro Assad, si è trovato un golpe in casa e adesso deve buttarsi nelle braccia di Putin.
Ma anche l’Italia, magari con maggiore tatto, potrebbe negoziare qualche cosa con Washington: per esempio un impegno maggiore per stabilizzare la Libia e un contenimento delle mire francesi ed egiziane. Il nostro interesse primario è fermare l’immigrazione illegale e la tratta di essere umani che contribuisce per il 40% del Pil della Tripolitania, un percentuale di introiti intascati anche dalle fazioni che sostengono il governo di Sarraj. L’ipotesi che Washington chieda di poter impiegare la base di Sigonella per le incursioni dei droni quindi deve essere vagliata con attenzione: finora abbiamo messo il veto alle missioni di attacco proprio perché possono scatenare ritorsioni terroristiche. Una linea ambigua che ci ha fatto comodo.
Spiace doverlo dire ma qui confiniamo con il caos che gli Stati Uniti hanno in gran parte creato nell’ultimo decennio. L’impressione è che le nostre missioni militari, dall’Afghanistan all’Iraq (ma anche in Libano) siano state solo in parte apprezzate. Quale ritorno ne abbiamo avuto? Il trattamento libico? Per non parlare delle sanzioni a Mosca e soprattutto all’Iran, formalmente superate ma che continuano per i veti Usa alle banche che operano con Teheran. È ora di dire qualche cosa di chiaro all’amico americano, posto che se ne abbia il coraggio.
Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore
Fonte: Pagina Facebook dell'Autore
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