di Antonio Pio Lancellotti
Dopo i primi massicci bombardamenti su Sirte avvenuti a partire del 1 agosto, ieri la Casa Bianca ha dato il via libera per un’operazione militare in Libia dalla durata di 30 giorni. La dichiarazione di Obama formalizza dunque un cambio di strategia da parte degli USA in Libia, che passano dalla ”guerra occasionale”, come l’ha definita Mattia Toaldo su Limes[1], ad una guerra strutturata. Nei mesi scorsi l’iniziativa militare statunitense in territorio libico ha riguardato pochi casi, tra cui bombardamento di una cellula dello Stato Islamico a Sabratha il 19 febbraio scorso ed un’azione contro il leader qaidista Mokhtar Belmokhtar a giugno. Nei primi tre giorni sono stati almeno 9 i raid compiuti dagli Harrier decollati dalla nave anfibia USS Wasp, con decine di morti.
L’operazione era già pianificata da mesi ed annunciata di fatto da Al Serraj in diretta televisiva, implorando un sostegno internazionale alle milizie di Misurata, che da mesi stanno contendendo all’Isis il controllo della parte occidentale del golfo di Sirte. Diverse fonti internazionali parlano di una serie di colloqui avvenuti nelle scorse settimane tra un rappresentante del governo di Tripoli, il vicesegretario di Stato americano Tony Blinken ed alcuni emissari di Francia, Gran Bretagna ed Italia, attraverso i quali sono stati definiti i dettagli dell’operazione. L’ultimo incontro, avvenuto ad Algeri il 26 luglio, ha scandito le tempistiche dei primi raid.
Un cambio di strategia tra piano internazionale e fronte interno
Sono diversi i fattori che hanno contribuito al cambio di strategia di Obama sulla Libia. Dopo il caos generatosi nel Paese Nord-Africano in seguito all’operazione militare a guida NATO Unified Protector, che portò alla destituzione ed all’uccisione di Mu'ammar Gheddafi, gli Stati Uniti hanno assunto un ruolo via via più defilato all’interno degli scenari “balcanizzati” (o “somalizzati” come li hanno definiti alcuni analisti, tracciando un parallelo con quanto accaduto in Africa Orientale nella metà degli anni Novanta, sempre in seguito all’intervento militare di alcune potenze occidentali) che hanno caratterizzato la Libia nella fase post-bellica. La fuga dal caos libico è avvenuta in particolare dopo l’uccisione dell’ambasciatore Chris Stevens, avvenuta il 12 settembre 2012 nel corso di un assalto all’ambasciata Usa a Bengasi che gli 007 hanno attribuito ad Al Qaida. L’episodio ha suscitato negli Usa gran clamore ed ha fatto scaturire un dibattito interno che ha reso la questione libica sempre più scottante ed ha condizionato la scelta di Obama di attuare un exit strategy. Media ed opinionisti politici, a meno di un anno dalla conclusione del conflitto, già definivano la Libia “un pasticcio”, paragonandolo all’Iraq o addirittura al Vietnam.
In questo contesto il cambio di strategia e la decisione di Obama di intervenire in maniera massiccia, assumono una valenza politica ancora più marcata. Posto che anche i più ingenui sostenitori della “guerra al terrore” si rendono contro che gli obiettivi dell’azione bellica si situano ben oltre la necessità di spegnere l’ultimo focolaio dello Stato Islamico nella Libia settentrionale, le motivazioni della scelta interventista possono essere sintetizzate in due ordini di questioni: il piano internazionale ed il fronte interno.
Rispetto al primo punto l’intervento militare rappresenta una chiara forzatura statunitense rispetto alle decisioni prese nel corso dell’ultimo G5, tenutosi ad Hannover lo scorso 24 e 25 aprile. Nel corso del vertice USA, Gran Bretagna, Francia, Germania ed Italia si sono accordate sul sostegno comune al governo Sarraj e sulla costituzione di un dispositivo militare di monitoraggio sulle coste libiche in chiave anti-migratoria. Hanno però glissato su qualsiasi ipotesi di azione militare, soprattutto in conseguenza dell’evidente ambiguità che ha caratterizzato il governo Hollande sul fronte libico. Mentre ai tavoli diplomatici la Francia ha sostenuto la soluzione unitaria con UE e Stati Uniti, da mesi stava lavorando con i miliziani guidati da Haftar. Alcune agenzie di intelligence, in particolare la Stratofr, hanno infatti confermato il coinvolgimento diretto delle forze speciali francesi nell’offensiva di Haftar a Bengasi, avvenuta lo scorso febbraio, che ha permesso al generale libico di liberare la gran parte della città dalle forze filo-islamiche tripoline e dalle milizie dell’Isis. L’intervento di questi giorni rappresenta un chiaro segnale di Obama all’asse “clandestino” franco-egiziano che, proprio sul sostegno al governo di Tobruk, sta provando a determinare uno scenario futuro per il Nord-Africa che da un lato consegni all’Egitto un egemonia regionale, dall’altro consenta alla Francia di rinsaldare quella politique méditerranéenne che storicamente ha costituito il nerbo dell’espansionismo transalpino.
Sullo sfondo aleggia sempre l’ipotesi di tripartizione della Libia, basata sulla suddivisione formale del Paese nelle tre regioni storiche che lo compongono (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan), stabilendo su ciascuna di esse un protettorato internazionale concesso rispettivamente ad Italia, Gran Bretagna e Francia. Sebbene l’ipotesi sia al momento molto più remota rispetto agli scenari che si stavano profilando alcuni mesi fa, in particolare dopo il fallimento dei negoziati di dicembre, l’idea desta ancora subbuglio nello scacchiere internazionale. Gli USA non possono permettersi di fare il ruolo degli spettatori in una contesa che riguarda il futuro di un Paese che nei decenni passati ha costituito uno dei principali serbatoi di approvvigionamento di risorse naturali per l’economia statunitense. Questo soprattutto, e qui rientra la seconda questione (il fronte interno), in una delle fasi più delicate della politica americana dal dopoguerra ad oggi.
Non è un caso che l’operazione militare sia iniziata pochi giorni dopo la convention democratica, che ha sancito la candidatura ufficiale di Hillary Clinton nella corsa alla Casa Bianca del prossimo novembre. In tutta la sua campagna elettorale la Clinton ha paventato un cambio di passo in politica estera ed un nuovo protagonismo statunitense soprattutto in Medio-Oriente, sancendo pubblicamente una discontinuità rispetto alla fase obamaniana che molti commentatori hanno definito di “neo-isolazionismo”. A questo si aggiungono le pressioni delle multinazionali americane del petrolio e la necessità, per la Clinton, di annunciare una revisione della politica petrolifera degli USA. Politica che negli ultimi anni si è basata per lo più sullo sfruttamento di giacimenti interni e sul consolidamento dei rapporti commerciali con il Canada, ma che adesso sta arrancando per via di una crescita economica ancora ampiamente sotto le aspettative. La Libia, che conserva al suo interno quasi il 40% delle risorse energetiche dell’intero contenente africano, è dunque obiettivo troppo ghiotto per poterlo lasciare alle sole brame neo-colonialiste europee.
Le basi italiane
Nel question time di ieri alla Camera il ministro della difesa Roberta Pinotti ha riconosciuto l’opportunità di concedere spazi aerei e basi militari italiane, al fine di «una più rapita ed efficace conclusione delle operazioni in corso da parte degli Usa in Libia contro l’Isis». Un film già visto, tante, troppo volte negli ultimi anni, che ha visto l’utilizzo sistematico, quantomeno dalla guerra in Bosnia in avanti, delle basi italiane per tutte le operazioni militari compiute dalla NATO.
Molti media nazionali, soprattutto quelli filo-governativi, hanno insistito molto sulla parlamentarizzazione del dibattito riguardante l’accelerazione delle operazioni militari in Libia. Ma attenzione, stiamo parlando di un’interrogazione parlamentare, ossia di una discussione in Parlamento relativa ad una decisione già presa dall’esecutivo; cosa ben diversa da una discussione che precede, e che eventualmente possa condizionare, una scelta politica. Qui non si tratta di appellarsi a procedure burocratiche o riabilitare una presunta democrazia parlamentare, ma di sottolineare la definitiva normazione di una prassi politico-decisionale che vede l’assoluta egemonia dei governi rispetto ad altri istituti della rappresentanza.
Le parole della Pinotti alla Camera suonano un po’ come la proverbiale “scoperta dell’acqua calda”. L’utilizzo delle basi, ed in particolare di quella di Sigonella, è già stato concesso in alcune operazioni di “guerra occasionale” che ci sono state fino a questo momento in Libia. Nella base siciliana già dalla fine del 2015 sono stati trasferiti una gran quantità di droni armati Reaper e di ricognitori strategici teleguidati Global Hawk, in dotazione all’esercito statunitense. Sebbene il governo italiano abbia negato al Pentagono l’autorizzazione ad usarli durante la più grande operazione militare in Libia antecedente il primo agosto (il bombardamento di Sabratha), è chiaro da tempo l’intento di Roma di non ostacolare e, anzi, di voler essere parte attiva del nuovo conflitto libico.
L’adesione italiana alle operazioni militari guidate dagli Stati Uniti va ben oltre la specifica questione libica e va forse cercata all’interno del processo di riorganizzazione che è attualmente in atto all’interno della NATO e che ha visto un passaggio fondamentale consumarsi al vertice di Varsavia, tenutosi lo scorso 8 e 9 luglio. Proprio da Varsavia è emerso chiaramente il ruolo centrale dell’Italia come centro di sperimentazione e sviluppo della cosiddetta “guerra automatizzata”, che nei prossimi anni modificherà la struttura politica e militare dei conflitti mondiali. Per queste ragioni, con o senza i 5 mila soldati che Renzi metteva sul piatto alcuni mesi fa a favore di un’eventuale azione militare, l’Italia è pienamente e direttamente coinvolta nella guerra in Libia.
L’(in)utile strage
All’inizio di ogni guerra, grande o piccola che sia, rimbomba la frese di Benedetto XV detta all’inizio del primo conflitto mondiale: «Fermate l’inutile strage!». Al di là di ogni retorica pacifista o pesudo-tale, le guerre non sono mai inutili. Anzi probabilmente sono il più freddo calcolo, in termini di rapporto tra interessi economici e vite umane, messo in campo dalle classi dominanti dall’inizio della storia dell’umanità. Ma torniamo al punto e la domanda che sorge spontanea sulla guerra in Libia in atto non è tanto “a chi o cosa serva”, ma quali potrebbero esserne gli effetti, su scala regionale e globale.
La foglia di fico della liberazione di Sirte dall’Isis è davvero troppo piccola per coprire un’operazione militare di questa portata. Come ha scritto Lucio Caracciolo in un articolo apparso su Repubblica lo scorso 17 febbraio[2], il fatto che lo Stato islamico abbia messo le proprie radici in Libia è una bufala, semmai si tratta di fazioni che si combattono tra loro usando il marchio “califfale” in franchising, nel quadro neo-tribale emerso nella Libia post-gheddafiana. La stessa conquista di Sirte è un feticcio, visto che diverse fonti di informazione locali da alcune settimane parlano di una massiccia fuga di miliziani islamici verso il centro del Paese. Ed è proprio lì, nel cuore del deserto libico, che la guerra può trasformarsi nell’ennesimo pantano, come nella miglior tradizione delle “guerre lampo” annunciate dagli americani (vedasi Vietnam ed Afghanistan come esempi ammonitori).
E’ palese che alla radice di questa guerra ci sia la necessità di stabilizzare il Paese, al fine di rimettere la produzione di greggio libica nuovamente nell’orbita del mercato internazionale. Questo è reso ancor più urgente, dal punto di vista statunitense, dal fatto che quasi 40 compagnie petrolifere hanno presentato istanza di bancarotta ed altrettante sono state salvate dalle banche nel corso del 2015, per via del crollo del prezzo del greggio. A questo si aggiunge il fallimento della politica energetica
do-it-yourself, del quale si è già fatto cenno.
Se l’oggetto della contesa appare lineare, meno chiaro appare il ventaglio dei contendenti. Nel pasticcio libico, generato proprio dalla pluralità di ingerenze internazionali che nel 2011 cavalcarono le primavere arabe per mettere le mani sul “tesoro di Gheddafi”, sono tanti gli attori chiamati in causa. Se di Usa, Francia ed Egitto si è già detto, non possiamo dimenticarci della Russia, che è stata la prima ad inveire contro l’attacco americano e che da tempo sta mettendo in atto quell’espansionismo mediterraneo che nel periodo zarista si era infranto sul muro della Crimea. Il quadro neo-coloniale è completato dall’Italia, che non ha mai nascosto l’ambizione di riconquistare il ruolo di principale interlocutore europeo della Libia, che aveva prima del 2011, e dalla Gran Bretagna, che vanta diritti storici di approvvigionamento e controllo sulla Cirenaica. In un quadro di governance multipolare già ampiamente frammentato e conflittuale, il pasticcio libico può trasformarsi in un vero e proprio detonatore, confezionando per il Califfo il più grande parafulmine internazionale che potesse ottenere.
[1] M. Toaldo, Gli Usa bombardano l’Is in Libia, Limesonline, 2 agosto 2016
[2] L. Caracciolo, Ma attaccare l’Isis è un regalo al Califfo, La Repubblica, 17 febbraio 2016
Fonte: Global Project
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