di Massimo Villone
E venne il giorno dell’ira. Migliaia di docenti hanno manifestato per protestare contro la «buona» scuola. Abbiamo ascoltato storie di famiglie frantumate o di figli abbandonati alla cura di nonni esausti, angosciosi interrogativi su come far quadrare i conti con un stipendio già magro a fronte delle maggiori spese di una sistemazione lontana. Un disastro annunciato. La risposta del sottosegretario Faraone è stata degna di una caserma: ottimo e abbondante.
L’algoritmo non si tocca, gli errori – se ci sono – rimangono marginali, il governo ha tolto dalla precarietà tantissimi docenti, che avranno finalmente un contratto a tempo indeterminato. Quel che accade – inclusa la risposta del sottosegretario – è invece un buon esempio di quanto sia fragile la concezione del governare che circola nelle ovattate stanze di palazzo Chigi, e quanto siano inadeguate le soluzioni legislative che ne derivano.
L’algoritmo non si tocca, gli errori – se ci sono – rimangono marginali, il governo ha tolto dalla precarietà tantissimi docenti, che avranno finalmente un contratto a tempo indeterminato. Quel che accade – inclusa la risposta del sottosegretario – è invece un buon esempio di quanto sia fragile la concezione del governare che circola nelle ovattate stanze di palazzo Chigi, e quanto siano inadeguate le soluzioni legislative che ne derivano.
Al sottosegretario intanto ci permettiamo di consigliare prudenza. Quando si hanno masse di docenti arrabbiati che protestano senza farsi intimidire, la risposta che tutto va bene può solo mostrarsi sorda e arrogante. Di fronte a una transumanza di professori di dimensioni inusitate, un errore da qualche parte deve esserci: o negli algoritmi ministeriali, o nella loro applicazione, o nell’impianto stesso della legge. Possiamo scegliere. E l’argomento della cessazione del precariato non bilancia il fallimento. Tra i manifestanti non mancavano gli ex-precari, e la ragione è semplice. È forse una soluzione dare al precario un contratto a tempo indeterminato, ma ricattandolo con la condizione di uno spostamento di centinaia di chilometri? Perché si trovi poi comunque esposto in prospettiva al potere discrezionale di un preside sceriffo?
Qui troviamo forse il punto di maggiore fragilità ad un tempo dell’impianto legislativo e della concezione del governare che impera a palazzo Chigi. La legge 107/2015 porta nella scuola la concezione dell’uomo solo al comando, tradotta nell’ampiezza del potere discrezionale del dirigente scolastico. Un connotato testardamente difeso anche da ultimo dal ministero, nella definizione dei requisiti e dei titoli valutabili per la chiamata dei docenti. Contro il parere e le proposte dei sindacati, l’elenco è diventato lunghissimo, tanto da lasciare di fatto al dirigente le mani libere nella scelta. Ma, oltre ad essere occasione – come ampiamente detto in passato – di clientele e malcostume, se non di corruzione in senso proprio, questo significa che tutte le tensioni di oggi cadono sulle spalle del dirigente. Qualunque cosa faccia, sbaglierà. E come sarà possibile alla fine garantire il buon andamento e l’efficienza del servizio con una parte non marginale del corpo docente che cercherà in ogni modo di sottrarsi alle difficoltà familiari e di vita derivanti dalla forzata deportazione? Con l’utilizzazione anzitutto di ogni possibile permesso, aspettativa, assenza giustificata per qualsivoglia motivo? E con una guerriglia infinita nelle sedi giudiziarie?
Sono gli esiti perversi di una concezione malata del governare. La scuola è stato uno dei terreni sui quali si è più chiaramente manifestata l’idea che il governo è comando, che si deve sottrarre ai lacci e lacciuoli di una concertazione antitetica rispetto a un decisionismo veloce ed efficiente. A nulla hanno valso proteste e manifestazioni. Il mondo della scuola è stato sostanzialmente messo ai margini nelle decisioni che hanno portato alla legge 107/2015. E lo stesso è accaduto anche nella fase dell’attuazione.
Questo ci dice quanto fosse fondata l’iniziativa referendaria sulla legge 107, e quanto invece sbagliata la timidezza di una parte della scuola e del sindacato che non ne ha colto l’importanza. Quando il parlamento è poco rappresentativo e sordo, e il governo non avverte la necessità di un confronto democratico, la via referendaria può ben essere la sola che rimane. La speranza di una correzione per via contrattuale non poteva che essere largamente illusoria.
Vedremo tra qualche giorno se le firme raccolte sui quesiti abrogativi di punti nodali della legge 107 – a partire dal preside-sceriffo – sono sufficienti, e speriamo vivamente che lo siano. E ci auguriamo che il mondo della scuola capisca come sia ora decisivo anche il No nel voto sul referendum costituzionale. È ben vero che non riguarda direttamente la scuola. Ma è l’unico strumento utile a determinare un clima politico nuovo, più aperto all’ascolto e disponibile alle ragioni di una scuola diversa da quella che il governo ha dimostrato di volere.
Infine, una considerazione. L’istruzione a tutti i livelli ci vede in basso nelle classifiche internazionali, e questo non può dirsi dovuto soltanto al governo in carica. Ma se questa «buona» scuola è davvero la migliore che possiamo oggi aspettarci, prepariamoci a vivere in un paese di analfabeti.
Fonte: il manifesto
Originale: http://ilmanifesto.info/a-scuola-di-comando/
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