di Andrea Coccia
"RCS MediaGroup S.p.A. rende noto che il Consiglio di Amministrazione della Società, nella seduta del 3 agosto 2016, dopo aver compiuto le opportune verifiche e le necessarie valutazioni, ha deliberato che, nell’ambito di una transazione generale novativa che prevede la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con l’ing. Cioli alla data del 3 agosto 2016 e la cessazione immediata del rapporto di amministrazione inscindibilmente connesso al rapporto di lavoro, all’ing. Cioli venga corrisposta la somma lorda di Euro 3.750.000,00."
Queste sono le righe del comunicato stampa con il quale il gruppo RCS ha annunciato la risoluzione del rapporto con il suo amministratore delegato,Laura Cioli, in carica da meno di un anno — dall'ottobre del 2015, quando sostituì Scott Jovane — e dentro queste righe c'è un paradosso.
Il paradosso è quello di un settore che da anni lamenta di essere alla canna del gas e di non avere più risorse, che negli ultimi mesi sta portando avanti una politica di riduzione dei costi molto dura, ma che, nello stesso periodo di tempo, ha fatto ben poco per tenere a bada le spese per la propria classe dirigente (RCS prevede il 10 per cento di riduzione su base volontaria per l'amministratore delegato e il presidente).
E ora, a pochi mesi dall'assunzione di un manager come la dottoressa Cioli, che “percepisce una retribuzione lorda annua pari a 550.000 euro per la carica di Direttore Generale ed un emolumento fisso pari a 200.000 euro lordi per la carica di Amministratore Delegato”, si trova a mandarla via — c'entra chiaramente la svolta Cairo — e a doverle dare 3 milioni e 750 mila euro lordi. Una cifra che, fa notare Pier Luca Santoro, analista e fondatore di Datamediahub, rappresenta circa “il 12% del saving sui costi fatto nel 1° semestre”. Niente male, senza contare, come ricorda ancora Santoro, che la stessa dottoressa Cioli è in possesso di circa 400mila azioni di RCS.
Insomma, siamo davanti a un paradosso. E, malgrado se la cavino ogni volta tirando in mezzo il fatto che la remunerazione dei dirigenti privati riguarda solo le aziende, che le responsabilità di queste cariche è tanto alta da richiedere emolumenti faraonici e pure che, in quanto manager, sono strapagati anche perché possono essere licenziati senza motivo, malgrado tutto, insomma, è un paradosso che stride e che fa male a tutti coloro che lavorano nella stessa filiera, perché le condizioni di lavoro in molti casi sono grottesche.
Perché l'editoria è un settore che, proprio sulle sue manifeste difficoltà, sempre rigorosamente esterne e ineluttabili, cerca da anni di giustificare il precariato, sempre più diffuso alla sua base, l'utilizzo massiccio di partite IVA, di contratti a progetto, di finti stage, di contratti determinati, di esternalizzazioni e di tutta una serie di altre pratiche piratesche che hanno trasformato le case editrici in giungle in cui le differenze contrattuali tra lavoratori — differenze economiche, ma anche a livello di diritti — sono ormai allarmanti. Ok, non è certo una novità e non riguarda senz'altro soltanto la dottoressa Cioli né soltanto RCS, ma sta diventando insopportabile.
Forse non è immorale che un dirigente guadagni dalle 50 alle 75 volte più di un suo dipendente. Ma lo è senz'altro gridare alla crisi per un decennio, giustificare con quella crisi i tagli e la balcanizzazione contrattuale dei subalterni, e poi ritrovarsi a dover risolvere un contratto durato nove mesi al costo di quasi 4 milioni di euro, ovvero un terzo di quei tagli di 15 milioni di euro che la stessa dottoressa Cioli prevedeva di accumulare nel triennio 2016-18, risparmiando, indovinate un po', sul costo del lavoro.
Fonte: Linkiesta
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