di Giovanni De Plato
Sui possibili fattori che concorrono a determinare il fenomeno stragista di questi anni, in particolare degli ultimi giorni, occorre in primis capire, ascoltare, interrogarsi. Il volto sempre più giovane degli attentatori, spesso figli della stessa civiltà che vorrebbero abbattere, ci obbliga a una riflessione non tanto sulla loro fragilità o immaturità, quanto sul loro percorso formativo per divenire adulti responsabili, sul modello di società che stiamo costruendo con il dominio della tecnologia e la perdita di valori etici e di diritti umani.
In questa era del postmoderno, dove persistono radici arcaiche e avanzano elementi innovanti, non bisogna smettere di conoscere. L’arcaismo che ci continua ad accompagnare nella nostra evoluzione, conserva tratti di primitivismo che possono riesplodere in condizioni di chiusura di quella vitale necessità di una prospettiva di buona emancipazione. Il postmoderno, a sua volta, spinge a innovare con una rapidità che muta strutturalmente le condizioni di vita, creando disagi esistenziali oltre che materiali. Disagi che ammassano le persone in aree di marginalità o esclusione sociale che possono divenire sacche esplosive.
Arcaismo e postmodernità sono fortemente interconnessi e nella loro unità generano fenomeni che vanno analizzati a fondo per poterli superare o debellare. Il capire è possibile se si supera una visione scolastica e ci si apre a un approccio multidisciplinare. La singola chiave di lettura del radicalismo politico, del fondamentalismo religioso, della psicopatologia o della devianza sociale non aiutano a cogliere il tragico fenomeno in tutta la sua portata invasiva e carica distruttiva.
Il contributo che possono dare le diverse discipline nello studio dello stesso fenomeno, è l’unica via lungo la quale possiamo arrivare a chiarire alcuni aspetti della violenza stragista. Uno dei fattori, forse non il più importante, che vorrei sottolineare è quello del fanatismo, in quanto cieco e totalizzante attaccamento a un’idea, una causa, una missione. Purtroppo su questo fenomeno l’approccio interdisciplinare (dall’antropologia alle neuroscienze) non ha prodotto molte conoscenze, in particolare sul fanatismo giovanile. Nonostante questo limite, qualcosa si può dire visto che è urgente aprire un dibattito a più voci.
Prendo come iniziale riferimento la dichiarazione rilasciata in una recente intervista da Liliana Segre, instancabile e illuminante testimone della Shoah. Dice a proposito della crudeltà umana: «E’ il fanatismo che ha portato il popolo tedesco a fare ciò che ha fatto. Non si può parlare di pazzia, Hitler non era pazzo. E’ come se ci fosse una vena di violenza, di fanatismo negli uomini che a volte riaffiora. Io ho molta paura di questa deriva di violenza fanatica che ritorna». La sua paura è anche la nostra e la sua lucidità di analisi dovrebbe divenire anche una nostra apertura mentale. Siamo ancora portati a dare veloci risposte tranquillizzanti e ad allontanare interrogativi responsabilizzanti. Perché la violenza riappare in tutta la sua barbarie? Perché da vena sotterranea non si prosciuga ma riemerge? Perché le azioni terroristiche dell’Isis e dei suoi militanti o adepti sono così efferate e disumane?
Il fanatismo non è indipendente dal contesto economico, sociale, culturale e ambientale. E’ l’esito di un serie di vicende personali, di rapporti sociali, di ingiustizie e di diseguaglianze tra le persone. In questo contesto il processo educativo e formativo diventa decisivo per evitare la caduta dei ragazzi nell’odio verso chi è diverso, estraneo o fortunato. Il fanatismo è prima di tutto una gabbia culturale, chi rifiuta l’incertezza e la precarietà può divenire inconsapevolmente soggetto intollerante, rigido, inflessibile, violento. E’ facile che arrivi a perdere qualsiasi valore per la vita propria e altrui. E’ facile che si attacchi dogmaticamente alla missione di giustiziere o di angelo vendicatore. E’ sempre successo nella storia, facciamo in modo che oggi non si ripeta la brutalità del passato, prendendo atto che intanto esiste una emergenza educativa.
Fonte: il manifesto
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