La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 6 agosto 2016

Se a determinare la cittadinanza Ue è lo status economico

di Carlo Caldarini
Nella prima puntata di questa inchiesta ci chiedevamo che fine avesse fatto il diritto di libera circolazione in Europa. Ne deducevamo che la Commissione europea, che appena due o tre anni fa osava sfidare gli argomenti xenofobi e populisti di alcuni governi nazionali, si sta ormai allineando su posizioni – per così dire – di estrema prudenza. A completamento di questo quadro, occorre tenere conto del clima allarmistico e restrittivo che la Corte di giustizia ha contribuito a suscitare.
Pur se nella sostanza il diritto comunitario in materia di libera circolazione dei lavoratori è rimasto immutato, la giurisprudenza della Corte di giustizia europea ne ha dato negli ultimi tre anni delle interpretazioni sempre più restrittive, dando così adito – intenzionalmente a nostro avviso – a un dibattito specioso e strumentale attorno al cosiddetto problema del “turismo (o shopping) sociale”.
Stiamo parlando delle sentenze Dano, Alimanovic, Garcia-Peña e soprattutto della sentenza del giugno 2016, nella causa – neanche a farlo apposta – Commissione europea contro Regno Unito. In realtà, dal punto di vista strettamente tecnico-giuridico, le prime tre sentenze non hanno aggiunto alcunché di nuovo. La Corte europea non ha fatto altro che confermare un limite già noto, secondo il quale uno Stato membro può escludere da alcune prestazioni di assistenza sociale (assistenza, non previdenza) i cittadini di altri Stati membri durante i primi tre mesi del loro soggiorno, o anche durante tutti i primi cinque anni. In altre parole, prima che il cittadino in questione acquisisca un diritto di soggiorno “permanente”. La stessa Corte ha però così preparato il terreno per altre interpretazioni, più audaci, e certamente più pericolose sul piano politico.
La sentenza Dano dell’11 novembre 2014 riguardava una causa tra due cittadini rumeni (la signora Dano e suo figlio) e il servizio pubblico per l’impiego (Jobcenter) di Leipzig, in Germania. Il litigio nasceva dal fatto che il Jobcenter aveva negato, alla signora Dano la prestazione di sussistenza (Existenzsichernde Regelleistung), e a suo figlio l’assegno sociale (Sozialgeld), nonché la partecipazione alle spese di alloggio e di riscaldamento. Tutte prestazioni cui qualsiasi cittadino tedesco, a parità di condizioni, avrebbe avuto normalmente diritto. In pratica, la Corte di giustizia dell’Ue ha ricordato che, quando la durata del soggiorno in un altro paese Ue è inferiore a cinque anni, come nel caso in questione, le persone debbono per principio disporre di “risorse proprie sufficienti”. Ciò al fine di “impedire che cittadini dell’Unione economicamente inattivi utilizzino il sistema di protezione sociale dello Stato membro ospitante per finanziare il proprio sostentamento”.
Pur non aggiungendo quindi nulla di nuovo a un vincolo noto e sancito già da un dispositivo del 2004 (Direttiva 2004/38 sulla libera circolazione dei cittadini Ue), questa sentenza ha suscitato uno straordinario scalpore, e in pochi giorni è stata più e più volte rilanciata dai media, specialistici e non, e sempre con titoli allarmistici e propagandistici: “Welfare, stop al turismo assistenziale” (Euractiv), “La Corte europea condanna il turismo del welfare” (Euronews), “Stop al turismo del welfare” (Il Sole-24 Ore), “La Corte Ue contro il turismo del welfare” (La Stampa) ecc. Gli stessi toni sono stati utilizzati anche dai media internazionali e di altri paesi europei, con rare eccezioni, ad esempio quella di Le Monde. Il risultato, è stato di mettere il vento in poppa alla demagogia nazionalista, xenofoba e antieuropea dei partiti di estrema destra, soprattutto nel Regno Unito, in Italia, in Austria, in Germania e in Olanda.
Il medesimo copione si è riproposto il 15 settembre 2015, nell'ambito di una controversia tra il Jobcenter Berlin Neukölln, sempre in Germania, e quattro cittadini svedesi: la signora Alimanovic e i suoi tre figli. In questo caso, la Corte Ue ha ricordato che un cittadino europeo alla ricerca di lavoro, residente da meno di 5 anni in un altro Paese dell'Unione – senza tuttavia avervi ancora lavorato almeno 12 mesi –, non può essere allontanato dallo Stato membro fintantoché continua a cercare lavoro, ma può tuttavia vedersi rifiutare alcune prestazioni di assistenza sociale (non contributive, quindi).
La sentenza del 25 febbraio 2016 riguarda ancora un centro tedesco per l’impiego, questa volta del distretto di Recklinghausen, il quale aveva negato le prestazioni di sussistenza alla famiglia spagnola Peña-García, durante i primi tre mesi del loro soggiorno in Germania. La Corte comincia qui a spingersi più lontano, sostenendo che tale rifiuto delle prestazioni sarebbe talmente evidente in sé, da non rendere necessario neanche quell’esame della “situazione individuale” dell’interessato che pure è prescritto di norma dalla Direttiva 2004/38.
Arriviamo così alla sentenza del 14 giugno 2014, Commissione europea contro Regno Unito. Mentre gli occhi degli analisti europei erano puntati sul referendum britannico, che di lì a poco avrebbe portato al disastroso risultato che conosciamo, la Corte di giustizia europea ha stabilito che uno Stato membro – e nella fattispecie proprio il Regno Unito – può negare gli assegni familiari e il credito d’imposta per i figli a carico, ai cittadini dell'Unione europea che non dispongano formalmente di un diritto di soggiorno in tale Stato (ricordiamo che proprio la riduzione degli assegni familiari in favore dei cittadini “stranieri” era stata messa sul piatto della bilancia da Cameron, come una delle condizioni per la permanenza del Regno Unito nell’Ue).
L’interpretazione dei giudici europei può riassumersi in questi termini. Il controllo del diritto di soggiorno di un cittadino europeo, come è il caso qui del Regno Unito, costituisce effettivamente una discriminazione,poiché i cittadini nazionali soddisfano evidentemente questa condizione più agevolmente dei cittadini degli altri Stati membri. La Corte ritiene, tuttavia, che una tale discriminazione può essere “giustificata dalla necessità di proteggere le finanze dello Stato membro ospitante” (vedi a questo proposito Rassegna del 21 luglio 2016).
La disponibilità di “risorse economiche sufficienti” da parte del cittadino europeo (“reddito e risorse di capitale”, dice precisamente la Corte) diviene così l’ago della bilancia, a protezione dei sistemi di welfare nazionali, apparentemente – ma solo apparentemente – minacciati da un eccesso di mobilità geografica proveniente dagli Stati membri meno equipaggiati in termini di welfare e diretto verso quelli meglio dotati. L’effetto congiunto dell’allargamento e della crisi ha indiscutibilmente provocato nuove ondate migratorie. Che questo costituisca però nel suo insieme un costo, e non un vantaggio, è smentito da tutte le analisi e da tutti gli studi finora conosciuti, compresi quelli della Commissione europea e dell’Ocse (vediarticolo su Rassegna del 15 marzo 2016). Ed è certamente contrario ad anni di previsioni e auspici delle istituzioni europee, tesi ad accrescere il tasso di mobilità interna della manodopera europea, da sempre giudicato insufficiente agli occhi della crescita economica.
In pratica, dopo una fase indubbiamente ascendente, durante la quale si è affermata la supremazia del concetto di cittadinanza europea, gli ultimi orientamenti della Corte suggeriscono che, più che l’appartenenza politica a una comune cittadinanza, d’ora in poi sarà sempre più la condizione economica a determinare l’apertura o meno di diritti sociali. Il problema, insomma, non sta precisamente nel cosa la Cortegiuridicamente stabilisce, ma piuttosto nel cosa essa politicamente suggerisce. Ed è allarmante che la Corte riesca così a indebolire e ridimensionare, sistematicamente ormai, ogni tentativo – per quanto timido – della Commissione europea di difendere principi di diritto sociale, per costruire i quali l'Ue ha impiegato 60 anni.
Brexit o non Brexit, questa linea di condotta apre di fatto le porte alla disfatta dell'intero sistema di welfare europeo. Come abbiamo scritto altre volte, l’obiettivo – neanche troppo latente – è separare l’accesso al mercato del lavoro e l’accesso alla protezione sociale. E – non ci stanchiamo di ripeterlo – non è difficile immaginare che, in assenza di radicali inversioni di rotta, le barriere che si stanno già oggi erigendo contro “stranieri” e “migranti” potranno via via essere utilizzate per frenare l’accesso al welfare anche ai lavoratori non stranieri. A noi tutti, insomma. (2/continua)

Fonte: Rassegna.it

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