di Liam Barrington-Bush
In un’atmosfera pesante per la nebbia della brutalità della polizia, per l’immenso sovraffollamento, le “mafie” che fanno contrabbandano di persone, e per il solito conflitto inter-culturale, può essere difficile immaginare che attecchisca qualcosa di buono. Tuttavia, la “Giungla”, l’infame campo di migranti di Calais, non può essere descritto soltanto per mezzo di soli tragici titoli sensazionalistici. In mezzo alla violenza e al caos delle conseguenze negative sulle persone di così tanti stati distrutti, rimena qualcosa di bello, contro ogni previsione, creata da coloro che sono finiti lì.
A poche ore dall’arrivo, per la prima volta, al campo di migranti a Calais, ci siamo trovati a nostro agio in una roulotte con camera da letto e da pranzo di una famiglia curda, condividendo la cena e un’immensa ospitalità che erano riusciti a mantenere con loro durante il loro tormentoso viaggio dall’Iraq.
Lo spazio era stretto, per 7 adulti e due bambini – compreso un neonato di un mese, il più giovane residente del campo. Cionondimeno, l’atmosfera era cordiale e accogliente, mentre spezzavamo insieme il pane, comunicando con frammenti stentati di varie lingue.
Questo può sembrare un modo non originale di iniziare una storia riguardante un campo noto per la sua violenza e il sovraffollamento, ma nelle due settimane scorse ha fatto certo eccezione. Ogni giorno si trovano in abbondanza atti di gentilezza, di ospitalità, di coraggio, di solidarietà e azione collettiva. E in molti dei paesi di origine che gli oltre 10.000 ospiti del campo si sono lasciati alle spalle, fitte reti di solidarietà reciproca sono state create per riempire i vuoti lasciati dai fallimenti dello stato.
Sono spuntati nel campo oltre 70 ristoranti diversi e piccoli negozi che fanno molto di più che vendere soltanto merci. Praticamente, aiutano ad affrontare le necessità del campo che le organizzazioni benefiche non possono o non vogliono soddisfare. Questo può avvenire fornendo cibo, vestiti, carte SIM per contattare la famiglia all’estero, o tramite reti informali di risposta per occuparsi delle irruzioni della polizia.
Servono come centri di informazione per la comunità e formano una fondamentale rete di comunicazione tramite la quale i messaggi possono rapidamente diffondersi in tutto il campo. Forniscono anche spazi sociali dove nascono rapporti, si fanno programmi, si condividono informazioni e dove, spesso, le persone possono semplicemente rilassarsi e vedere un film di Bollywood bevendo un tazza di tè.
I negozi non sono che un esempio dei modi in cui le persone si sono amalgamate per fare della loro vita nel villaggio improvvisato un’esperienza più sopportabile. Tuttavia, la maggior parte dei racconti che riescono a uscire dal campo, sono un misto di terrore e di tragedia. Mentre alcuni sono accurati, molti sono resi sensazionalistici sia dalle invettive dei giornali scandalistici che cercano di alimentare la paura per gli “sciami di migranti” , che dalla “pornografia della povertà” bene intenzionata ma comunque sfruttatrice, circa i bambini soli, le strutture malsane o i penosi viaggi che hanno portato la gente a Calais.
Questo non vuole indebolire le realtà che sostengono queste storie; si sarebbe in difficoltà a trovare residenti del campo che negano che la violenza e la paura sono parte quotidiana della vita nel più grande campo di migranti della Francia. Raccontare, però, queste storie senza un poco della loro controparte meno sensazionale rende un cattivo servizio a tutti coloro che hanno reso l’accampamento una cosa molto più grande della somme di innumerevoli titoli di giornali scandalistici.
Visto attraverso una lente diversa, il campo di Calais è una piccola città movimentata e una sua propria economia e un multiculturalismo che si trovano di rado al di fuori delle grandi città. Potenti elementi di comunità si sono radicati lì malgrado la popolazione sia di per sé transitoria e malgrado le complicazioni di un diffuso stress post-traumatico, e la continua violenza dello stato francese. Mentre è difficile afferrare le sfumature e la complessità di ciò che accade nel corso di un solo giorno al nel campo, qui sotto trovate alcuni modelli che ho notato nelle due settimane che ho trascorso lì i quali evidenziano alcune delle attività collettive che hanno tenuto insieme le cose, in mezzo a una miriade di forze che cercano di distruggerle.
Condividere il cibo e le risorse
Spesso ci viene detto che la necessità aumenta la competizione. Questo è uno dei miti fondamentali del capitalismo. In pratica, però, succede spesso il contrario: in momenti di necessità stabiliamo nuovi tipi di collaborazione e di reciprocità.
Durante le due settimane a Calais, ho speso pochissimi soldi per cibo e bevande. Quando li ho comprati, erano poco cari, e spesso bastavano per almeno 6 persone. Ogni giorno qualcuno ci invitava per prendere una tazza di tè e chiacchierare, se non anche per un pasto. Le grandi cucine dell’organizzazione benefica certamente fornivano una parte considerevole del cibo, ma i volontari erano i primi a riconoscere che potevano soddisfare soltanto una frazione della richiesta che affrontano ogni giorno. Nel contribuire a riempire questo vuoto cruciale, i ristoranti, gestiti come attività commerciali, radicate, però, nelle loro comunità, spesso forniscono gratuitamente il cibo a coloro che non sono in grado di pagare o che si sono persi nelle lunghe file per arrivare alle cucine dell’organizzazione benefica.
E la condivisione non è limitata soltanto al cibo. Su applica anche agli arnesi, alle coperte, alle tende e ai ricoveri. Chi è senza soldi può fare la doccia gratuitamente nei negozi di barbiere del campo. Se il compagno di tenda di alcune persone riesce a mettersi in viaggio per l’Inghilterra, spesso questi inviteranno altri nello spazio che si è liberato. Se qualcuno ha una pala o un rastrello, questo viene senz’altro passato a qualcuno che sta lavorando alla costruzione di un nuovo ricovero.
Il capitalismo si basa sull’idea darwinista sociale che noi cresciamo e ci evolviamo attraverso la competizione, ma il campo di Calais ci racconta una storia molto diversa. In un luogo dove la sopravvivenza non può essere data per scontata, è principalmente per mezzo dell’aiuto reciproco, della condivisione e della collaborazione, che la vita è stata resa possibile a una popolazione di circa 10.000 persone, che oscilla di continuo.
Costruzioni collettive, accoglienza collettiva
Analogamente, la condivisione e la collaborazione nel campo non sono soltanto un problema di cibo e di risorse fisiche. Ho trascorso una settimana costruendo un’aggiunta a uno spazio della comunità proprio in mezzo al campo, dove la richiesta aveva chiaramente superato i mezzi disponibili.
C’è stato un divieto per costruire imposto dallo stato, da quando, in marzo, è avvenuta la distruzione del lato sud del campo a opera della polizia francese, con questo intendendo dire che spesso è difficile procurarsi i materiali ed è necessario trovare un sostegno informale. Il progetto di costruzione era per lo più concentrato in pochi giorni, ma in quel tempo ha ottenuto l’appoggio di molti stranieri.
Talvolta questo significava aiutare con strumenti oppure trovare dei materiali da costruzione, ma spesso implicava l’apporto di costruttori esperti che offrivano suggerimenti sulle fondamenta, sulle finestre o sull’isolamento o che facevano materialmente dei buchi o frugavano alla ricerca si scarti del legno o che segavano a misura le travi verticali. Non si è mai parlato di compenso, ma c’era una tacita intesa che gli sforzi sarebbero stati ricompensati dal karma del campo. In questo spirito, ho gioiosamente risposto alle richieste di altri per un aiuto extra per il loro negozio o ricovero. Era chiaramente il modo in cui là si facevano le cose.
Secondo le cifre più recenti avute da associazioni no-profit che operano a Calais, in media 70 nuovi migranti arrivano ogni giorno al campo. E’ ampiamente maggiore del numero di chi riesce a fare il viaggio in Gran Bretagna ogni sera o di chi decide di auto-deportarsi o di scegliere un altro paese europeo dove stabilirsi, e quindi questa popolazione crescente può dimostrarsi incredibilmente impegnativa per lo spazio che si va restringendo e che lo stato francese ha scelto di destinare al campo.
Tuttavia molte di queste difficoltà vengono aggirate tramite iniziative di accoglienza facilitate dalle comunità che si sono installate lì.
E’ arrivata una nuova famiglia sudanese? Chi conosce qualcuno nella comunità sudanese che la aiuti a trovare un posto per dormire e del cibo?
Un afgano che parla la lingua Pashto (una delle due lingue parlate in Afghanistan; l’altra è il dari, n.d.t.) vaga nel campo con aria sperduta? Ci parla Pashto? Possiamo trovare qualcuno che conosce qui?
Un bambino siriano è appena arrivato e sta cercando suo zio. C’è una tenda o un ricovero di altre persone che parlano arabo che possono accogliere il bambino fino a quando trovano lo zio?
Mentre alcune delle organizzazioni benefiche accettano degli aspetti di questo ruolo, è difficile immaginare che il campo di Calais funzioni senza questo sistema improvvisato di integrazione collettiva.
Considerando i viaggi pieni di violenza e di traumi intrapresi da così tanti nuovi residenti del campo, senza un affettuoso benvenuto e un certo aiuto iniziale per le necessità fondamentali, i livelli di contrasto probabilmente sarebbero molto superiori. La relativa assenza di questo tipo di processo in luoghi dove spesso si trovano i nuovi migranti (o per caso o dopo essere stati ospitati dallo stato in città remote) può far diventare il tempo nell’insediamento molto burrascoso. I sistemi informali del campo hanno contribuito ad affrontare questa agitazione.
Inasprire i controlli sulla comunità
Lo stato francese sembra che riconosca l’importanza di questi processi collettivi e delle strutture nel provvedere al mantenimento del campo. Di conseguenza, i ristoranti e i piccoli esercizi commerciali sono stati particolarmente presi di mira dalle irruzioni della polizia fatte con il pretesto che non vengono pagate abbastanza tasse o che i loro standard sanitari e della sicurezza non sono adeguati. Anche dopo che, a metà agosto, una decisione del tribunale aveva detto che i negozi e i ristoranti del campo non potevano essere distrutti, la polizia continua a fare irruzione, confiscando cibo anche se con minore violenza di quella usata prima del responso del tribunale.
Secondo molte persone gli attacchi ai ristoranti sembra siano mirati a interrompere le reti di comunicazione e l’organizzazione degli spazi comunitari al centro del campo. Senza di questi, tutta una serie di effetti domino è probabile che si verificherebbero di conseguenza, a partire da immediate carenze di cibo e arrivando a minore preparazione e reazione quando la polizia deciderà di fare irruzioni arbitrarie.
Forse, più insidiosamente, il governo francese finanzia un campo “ufficiale” di container all’interno del più vasto accampamento dove nessuno degli aspetti più formali della comunità riescono a esistere. Gestito dalla organizzazione benefica La Vie Active (La Vita Attiva), i bianchi container messi in un recinto, sembrano un sobborgo sterile, paragonato al coraggio del campo urbano, ma vengono descritti dai residenti come “simili a una prigione” dove si costringono i migranti a far esaminare le loro impronte digitali se vogliono vivere lì, indebolendo gravemente la loro possibilità di chiedere asilo in altra paesi d’Europa. Il campo dei container ha come personale anche la sicurezza privata, costantemente monitorata dalla CCTV (televisione a circuito chiuso) (un’altra minaccia alle richieste di asilo), è proibito l’accesso ai visitatori e fornisce ricovero alla polizia che attende i furgoni, malgrado la continua violenza della polizia contro i residenti del campo. Inutile dire che non ci sono ristoranti nel campo con i container: soltanto le cucine delle organizzazioni di beneficienza.
I container forniscono un’immagine blanda di relativa pulizia che serve alle autorità francesi da mettere in mostra per i media, allo stesso tempo instillando un modello profondamente clientelistico dipendente dalla beneficenza, rendendo praticamente impossibile alle persone organizzare le loro soluzioni ai problemi quotidiani che affrontano. Molti nel campo sentono che questo è esattamente quello che erano stati destinati a fare: rompere i legami di solidarietà che attualmente danno al campo più vasto una vita e un’autonomia proprie, sfidando il monopolio dello stato al potere. Significativamente, però, la maggior parte delle persone non ha abboccato all’amo, scegliendo di stare nel campo principale, malgrado tutte le difficoltà.
Le molte verità della cosiddetta “Giungla”
La verità del campo non è singolare. La violenza, il sovraffollamento e le tensioni tra comunità sono crisi molto reali e persistenti. Il campo di Calais è molto dominato dai maschi e questo renda meno sicura la permanenza delle donne qui. Le “mafie” che controllano la maggior parte dei percorsi che portano nel Regno Unito, non hanno paura di usare la forza letale per mantenere le loro strade. Queste non sono realtà sulle quali si può sorvolare.
E tuttavia la cosiddetta “Giungla” ci ricorda anche le capacità umane di gentilezza, collaborazione, e di auto-organizzazione, così spesso perdute in spazi più obbligati agli ordini dello stato. Nel campo di Calais in un certo modo si ha la sensazione di essere in innumerevoli città piccole e grandi del Sud globale, fatte cadere in modo maldestro sul litorale industriale della Francia. Le sue stradine di terra battuta e le strutture improvvisate creano l’estetica, ma sono l’informalità, la cultura fai da te, l’economia di baratto, e i quotidiani atti di solidarietà da parte di vicini e di stranieri, che permette di dimenticare per un momento che si è nel ventre della Fortezza Europa.
Riconoscendo l’importanza di quello che le persone sono state in grado di creare all’interno del campo, qualunque cosa accada a questo, apriamo la possibilità che alcune delle sue lezioni avranno l’occasione di crescere e di sbocciare in qualche altro posto, mentre le crisi attuali si intensificano e si estendono in tutta l’Europa e oltre.
In un mondo ideale, non ci sarebbe alcuna necessità che esistesse il campo di Calais, ma fino a quando ci troviamo lì, è importante trarre qualsiasi lezione possiamo riguardo a che cosa possa migliorare spazi come questo a favore di coloro che li vivono e li sperimentano nei loro viaggi.
Liam Barrington-Bush è stato uno dei partecipanti all’occupazione durata sette mesi e denominata Sweets Way Resists, della zona residenziale nella parte nord di Londra; ha vissuto in Messico, documentando i movimenti per la terra nello stato di Oaxaca. Il suo twitter è @hackofalltrades.
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: Roarmag.org
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0
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