di Andrea Colombo
Era l’uomo a cui rivolgersi nei momenti difficili. La formula «risorsa delle istituzioni» è stata usata tanto spesso e a sproposito da quasi aver perso ogni significato. Eppure Carlo Azeglio Ciampi era proprio questo: una risorsa della Repubblica e non dei partiti, a nessuno dei quali aveva mai aderito dopo l’iscrizione al Partito d’Azione subito dopo l’8 settembre.
Una sola tessera in tasca
Però sarebbe un errore immaginare l’ex presidente della Repubblica scomparso ieri come un «tecnico» privo di passioni politiche. Gli azionisti, si sa, sono stati una realtà unica nella storia politica italiana. Un partito laico, deciso a modernizzare e moralizzare l’Italia, passato come una meteora nel quadro politico del dopoguerra però mai del tutto scomparso. Dopo la diaspora gli azionisti hanno portato la loro visione negli altri partiti, contaminandoli, oppure hanno trasferito la loro passione civica nei gangli della società. Ciampi decise di farlo nella Banca d’Italia, dove era entrato per concorso nel ’46.
Era nato a Livorno nel 1920, si era rivelato subito uno studente brillantissimo, in Italia e all’estero. Aveva studiato alla Normale di Pisa e si era laureato in Lettere nel 1941. Una seconda laurea, in Giurisprudenza, sarebbe arrivata nel 1946. Profondamente antifascista, dopo l’8 settembre aveva raggiunto con un viaggio drammatico l’Italia del Sud insieme al suo professore, il filosofo Guido Calogero, e si era arruolato nell’esercito italiano appena rifondato.
A Bankitalia nella tempesta
Quando nel 1979 il presidente Pertini lo chiamò alla guida della Banca centrale, Ciampi ne era da un anno direttore generale. Bankitalia, invece, viveva il suo momento più difficile. Il governatore Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, videdirettore generale e responsabile della sorveglianza sulle banche, erano appena stati inquisiti per interesse privato in atti d’ufficio e favoreggiamento. Sarcinelli era stato arrestato, Baffi aveva evitato la cella solo in virtù dell’età avanzata. Una storiaccia losca, orchestrata dalla P2 per sottrarre alla vigilanza di Bankitalia il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e le manovre losche di Michele Sindona. I due dirigenti sarebbero stati entrambi prosciolti nel 1981, ma intanto palazzo Koch rischiava di essere travolto dalla tempesta.
Ciampi accettò l’incarico, avvertendo però che se Sarcinelli fosse stato allontanato da Bankitalia non sarebbe rimasto neppure lui. Guidò la Banca centrale per 14 anni, quelli nei quali l’invadenza dei partiti è stata più onnivora e capillare.
Forse anche per questo il governatore coadiuvò l’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta nella riforma epocale che, con una semplice lettera del ministro al governatore, portò alla separazione tra ministero del Tesoro e Banca centrale, da quel momento non più costretta ad acquistare i titoli di Stato italiani. Quel «divorzio» garantì l’autonomia della Banca d’Italia e tuttavia da allora non ha mai smesso di essere oggetto di contesa: molti economisti attribuiscono proprio a quella mossa l’impennata del debito pubblico negli anni ’80, effetto opposto a quello atteso da Andreatta e Ciampi.
Governatore negli anni del potere assoluto dei partiti, Ciampi fu spinto nel 1993 a palazzo Chigi dal loro crollo. Il precedente governo Amato era stato falcidiato da tangentopoli, i partiti già onnipotenti si sgretolavano sotto le mazzate di Mani pulite, la legge elettorale che aveva retto gli equilibri della prima Repubblica era stata abbattuta da un referendum plebiscitario.
Ciampi prese in mano il governo nella fase più delicata della storia repubblicana. Come se il momento non fosse già abbastanza complicato, la bocciatura da parte della Camera dell’autorizzazione a procedere contro Craxi spinse il Pds di Occhetto a indebolire il governo nascente garantendo solo una sorta di «appoggio esterno».
Primo premier non di partito
Il primo premier non proveniente dai partiti nella storia della Repubblica portò lo stesso a termine la missione egregiamente, garantendo gli equilibri e la tenuta delle istituzioni nel turbolento anno che coincise col passaggio dalla prima alla seconda Repubblica.
Poi, come nel suo stile, dopo 13 mesi di presidenza del consiglio passò la mano senza darsi da fare per restare al centro della scena. Per due anni ricoprì la carica di vicepresidente della Banca dei regolamenti internazionali, postazione defilata, ben lontana dal centro della scena pubblica.
A richiamarlo in servizio fu Romano Prodi, subito dopo la vittoria dell’Ulivo nelle elezioni del ’96, offrendogli il ministero dell’Economia. Anche quella era una missione quasi impossibile. Si trattava di rientrare in tempi record nei parametri di Maastricht, intervenendo con l’accetta sul debito pubblico. Non erano pochi a essere tentati dall’ipotesi di rimandare l’ingresso nella moneta unica, e lo stesso Prodi considerava seriamente quella strada. Ciampi no. Fu lui a insistere più di ogni altro per l’ingresso nell’euro immediato e a qualsiasi costo.
Con una biografia circondata da rispetto quasi unanime e con alle spalle la campagna vincente dell’euro, l’elezione a capo dello stato era quasi scontata. Ciampi fu infatti eletto al primo scrutinio, col 70% dei voti, sulla base di un accordo bi-partisan tra D’Alema e Berlusconi.
Il basso profilo sul Colle più alto
Come capo dello stato Ciampi ha mantenuto un profilo di massima discrezione. Lo si ricorda soprattutto per l’impegno patriottico a favore del tricolore, tutt’al più per l’intervento con cui impose la modifica della nuova legge elettorale, il Porcellum, che prevedeva un premio di maggioranza nazionale invece che regionale anche al Senato, in contrasto col dettato costituzionale.
Quel basso profilo era probabilmente frutto di una scelta precisa. Dopo un presidente che si era rivelato molto interventista come Scalfaro, il successore tentava di riportare il ruolo nel Colle nei suoi limiti costituzionali.
Senza troppo clamore, semplicemente interpretando anche la presidenza della Repubblica come un servizio regolato dal rispetto rigoroso della Carta. Ma quella battaglia Carlo Azeglio Ciampi non è riuscito a vincerla.
Fonte: Il manifesto
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