di Enrico Beniamino de Notaris
La sentenza per danno all’immagine dell’azienda che coinvolge gli operai licenziati di Pomigliano si fonda su una valutazione soggettiva: i giudici ritengono che le manifestazioni operaie «hanno travalicato i limiti del diritto di critica e si sono tradotte in azioni recanti un grave pregiudizio all’onore e alla reputazione della società resistente, arrecando alla stessa, in ragione della diffusione mediatica che hanno ricevuto, anche un grave nocumento all’immagine». E, nella seconda sentenza: «Non sono emersi elementi in giudizio da cui poter desumere un immediato nesso di causalità tra i tragici suicidi dei predetti lavoratori e la conduzione manageriale imputabile all’amministratore delegato della società resistente».
Dunque le sentenze desumono il nesso tra le tragiche capacità di ironia degli operai ed il danno di immagine da loro arrecati all’azienda, per quanto ipotetici; ma lo negano tra conduzione aziendale e realtà e storia dei tragici suicidi degli operai.
Già nel 2012 Duleba, et al. in Economic Recession, Unemployment and Suicide, confermavano in maniera univoca come l’andamento della crisi iniziata nel 2007 abbia determinato un progressivo aumento del tasso di suicidi, come nella Grande Depressione degli anni Trenta, o nella crisi Asiatica nel biennio 1997-98. C’è una sterminata bibliografia sulle relazioni indubbie tra crisi economica e malessere umano, ma al di là delle così dette evidenze scientifiche, è poi così tanto lontano dal comune sentire comprendere che dall’improvvisa perdita del lavoro derivano tante altre difficoltà?
Nel caso del crollo delle “tigri” asiatiche alla fine degli anni ’90 i tassi di suicidio degli uomini nel 1998 aumentarono del 39% in Giappone, del 44% a Hong Kong e del 45% in Corea del Sud. Nell’Unione europea ogni nove minuti c’è un suicidio, 58.000 nel corso del 2008, con un incremento del 16 per cento rispetto al 2007. E con la crisi questi indici sono aumentati nei Paesi Baltici e in Grecia in proporzioni notevoli. Nel 2009 ci fu in Lituania un aumento del 14% rispetto al 2008. In Estonia fu del 15,6% e in Lettonia del 19%. Non è un caso che tre paesi colpiti fortemente dell’austerità – Lettonia, Irlanda e Grecia – hanno registrato gli incrementi maggiori nei suicidi tra il 2008 ed il 2009. Il tasso di suicidi in Grecia dall’inizio della crisi è passato da 2,8 a 6 ogni 100.000 abitanti.: fra il 2007 ed il 2009 si è riscontrato un aumento del 17%, nel successivo biennio del 36% e nel 2011 del 40%, come attestato dai dati pubblicati dal Ministero della Salute greco.
Ma non è un problema solamente dei paesi poveri dell’Europa o dei Pigs: nel Regno Unito, dopo una decade di calo, tra il 2007 e il 2009 il tasso dei suicidi è salito, con il netto incremento della disoccupazione, del 7% per gli uomini e dell’8% per le donne nel solo 2008, e ancor più nel biennio 2008-2010.
Da tempo quindi le scienze umane indagano sulle connessioni tra condizioni economiche e identificazione sociale, condizioni lavorative e salute mentale, depressione e suicidio. Non è il caso di citare Durkheim e ricerche poderose, antiche e notissime, come quelle relative alla crisi del ’29; si riportano invece studi più recenti, che riguardano realtà più vicine.
L’Italia ha conosciuto l’acme della crisi economica in ritardo, ma l’aumento della disoccupazione nel 2009-2010, rispettivamente dell’8,5% e di circa il 10%, rende allarmante il futuro . Lo Studio Longitudinale Torinese ha documentato nel periodo 1981-1991 un eccesso di mortalità misurata sotto forma di Rischio Relativo (RR): le cause prevalenti di insorgenza dei sintomi erano nel 30% dei casi dovute a difficoltà economiche, nel 25%, soprattutto per impiegati ed operai, all’insicurezza del posto di lavoro, come fra casalinghe, mogli di impiegati e operai soprattutto, il cui posto di lavoro era a rischio. I suicidi dovuti alla crisi economica sono, dunque, una triste realtà sociale in aumento: 89 suicidi del 2012; 149 nel 2013; più di 200 nel 2014; tra il 2012 ed il 2014 sono raddoppiati: in 439 si sono tolti la vita schiacciati da debiti, fallimenti, licenziamenti e disoccupazione. Per Galibert: «L’ipercapitalismo non si accontenta di estorcere qualche ora al giorno di lavoro non pagato. Pretende e ottiene la totalità della vostra esistenza: le società della disciplina e del controllo cedono ormai il passo alle società del sacrificio».
Tornando a Pomigliano e alle sentenze dei giudici, se l’ironia e la satira sono parte dei comportamenti umani propulsori ed essenziali, a cui riconosciamo legami con la libertà di espressione in senso più estensivo, quale giudizio può condannarle?
E’ facile il collegamento storico tra fascismi e divieto della satira, persino superfluo, ma proprio in virtù di ciò assume maggior evidenza politica l’abnormità di un’ attribuzione di colpevolezza al gesto ironico, alla rappresentazione satirica della condizione tragica degli operai licenziati. Ecco quindi la vera ironia: secondo le sentenze di cui si scrive avere in sorte il licenziamento non espone a seri rischi sul piano della salute mentale e al suicidio, o non risultano chiari i nessi di causalità; viceversa l’ironia tragica di chi tenta di difendere il proprio lavoro e la possibilità di continuare a vivere, determina gravi danni d’immagine all’”azienda resistente”.
Il fenomeno suicidiario», per Franco Berardi, «è divenuto l’atto politico cruciale sulla scena politica globale», la disperazione è diventata «il modo prevalente di pensiero sul futuro». Berardi cita molti esempi di suicidi legati alle condizioni di lavoro o a licenziamenti (Foxxon, France Telecom, i contadini indiani messi in difficoltà dalla Monsanto: ben 216000 suicidi tra loro a partire dal 1977, etc.). Siamo quindi in presenza di un fenomeno di vasta portata, in qualche modo connaturato alle dinamiche attuali del capitalismo, che attua strategie di frammentazione, di isolamento e chiusura. Costringere crescenti masse di inoccupati, disoccupati, cassintegrati alla rinuncia e, anche, alla sofferenza mentale e al cupo pessimismo nasconde il problema trasponendolo dal piano strutturale dell’organizzazione del (non) lavoro a quello, più “psichiatrizzabile”, e monetizzabile, del disagio individuale. Infatti la tendenza di scelte suicidiarie tra operai licenziati o cassintegrati in coincidenza dell’attuale crisi economica dilaga ormai in tutto l’occidente, e non solo, ed analogamente dilagano le patologie psichiatriche a testimonianza di un disagio, sempre più diffuso, relativo all’incertezza esistenziale e alla difficoltà a concepire prospettive praticabili. Il gesto ironico si contrappone alla frammentazione, sia pure in maniera insufficiente, e ricuce in un sentire comune la voglia di difendere i propri diritti: esso è pertanto pienamente politico e non criminalizzabile.
Fonte: il manifesto
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