di Chantal Mouffe
Una delle tesi principali che ho sostenuto nei miei lavori è che le questioni propriamente politiche implicano sempre decisioni che richiedono una scelta tra alternative indecidibili da un punto di vista strettamente razionale. Si tratta di una posizione inammissibile per la teoria liberale, poiché concepisce il pluralismo in modo inadeguato: riconosce che viviamo in un mondo in cui coesistono molteplici prospettive e valori e accetta che sia impossibile per ciascuno di noi – in base a ragioni che ritiene di natura empirica – assumerli tutti, ma immagina che, nell’insieme, queste prospettive e questi valori costituiscano un tutto armonico e non conflittuale.
Un pensiero di questo tipo è perciò incapace di dar conto del carattere inevitabilmente conflittuale del pluralismo – che discende dall’impossibilità di conciliare tutti i punti di vista – ed è portato a negare la dimensione antagonista del politico.
Un pensiero di questo tipo è perciò incapace di dar conto del carattere inevitabilmente conflittuale del pluralismo – che discende dall’impossibilità di conciliare tutti i punti di vista – ed è portato a negare la dimensione antagonista del politico.
Io sostengo invece che solo quando si assume il politico nella sua dimensione di antagonismo si può cogliere la sfida che la politica democratica deve affrontare. La vita pubblica non potrà mai fare a meno dell’antagonismo poiché riguarda l’agire pubblico e la formazione di identità collettive: essa mira a costituire un noi in un contesto di diversità e di conflitto. Ma per costituire un noi, occorre distinguerlo da un loro. Perciò la questione cruciale della politica democratica non è di giungere a un consenso generalizzato – il che equivarrebbe alla creazione di un noi senza correlazione con un loro – ma di pervenire a stabilire la discriminante noi/loro in modo tale da essere compatibile con il pluralismo.
Secondo il modello di «pluralismo agonistico» che ho elaborato in The Democratic Paradox (Verso, 2000) e Sul politico (Routledge, 2005), ciò che caratterizza la democrazia pluralista è di instaurare una distinzione tra le categorie di nemico e di avversario. Ciò significa che all’interno del noi che costituisce la comunità politica, colui che si oppone non sarà considerate come un nemico da uccidere, ma come un avversario la cui esistenza è legittima. Le sue idee saranno vigorosamente combattute, ma il suo diritto di difenderle non sarà mai messo in questione. La categoria di nemico tuttavia non scompare, poiché continua a essere pertinente nei confronti di quanti mettono in discussione i principi stessi della democrazia pluralista e non possono pertanto far parte dello spazio agonistico.
Dopo avere distinto così tra antagonismo (la relazione amico/nemico) e agonismo (la relazione tra avversari), siamo in grado di comprendere perché lo scontro agonistico, lungi dal rappresentare un pericolo per la democrazia, ne sia in realtà la condizione stessa di esistenza. La democrazia non può certo sopravvivere senza certe forme di consenso – che devono riguardare l’adesione ai valori etico-politici che costituiscono i suoi principi di legittimità e le istituzioni nelle quali si inscrivono – ma deve soprattutto permettere al conflitto di esprimersi e ciò richiede che i cittadini abbiano davvero la possibilità di scegliere tra reali alternative.
È necessario a questo punto introdurre la categoria di egemonia che ci consentirà di render conto della natura della lotta agonistica. Per cogliere il politico come possibilità sempre presente dell’antagonismo, è necessario riconoscere l’assenza di un fondamento ultimo e l’indecidibilità che permea ogni ordine sociale. È proprio a questo che fa riferimento la categoria di egemonia, segnalando che ogni società è il prodotto di pratiche che mirano a istituire un ordine in un contesto di contingenza. Ogni ordine sociale è dunque di natura egemonica e la sua origine è politica. Il sociale è costituito da pratiche egemoniche sedimentate, cioè da pratiche che nascondono gli atti originari della loro istituzione politica contingente e che sembrano procedere da un ordine naturale. Questa prospettiva rivela che ogni ordine sociale risulta dall’articolazione temporanea e precaria di pratiche contingenti. Le cose sarebbero sempre potute essere diverse e ogni ordine viene instaurato attraverso l’esclusione di altre possibilità. È sempre l’espressione di una struttura particolare di relazioni di potere, da cui il suo carattere politico. Ogni ordine sociale che in un dato momento viene percepito come «naturale», così come il «senso commune» che lo accompagna, è in effetti la risultante di pratiche egemoniche sedimentate e non è mai la manifestazione di un’oggettività esterna alle pratiche attraverso le quali è stato instaurato.
Quel che è in gioco nella lotta agonistica è la configurazione stessa dei rapporti di potere che strutturano un ordine sociale e il tipo di egemonia che costruiscono. Si tratta di uno scontro tra progetti egemonici opposti, che non possono mai essere razionalmente conciliate. La dimensione agonistica è dunque sempre presente, ma è messa in scena attraverso un confronto le cui procedure sono accettate dagli avversari. Il modello agonistico che propongo riconosce il carattere contingente delle articolazioni egemoniche che determinano la specifica configurazione di una società in un dato momento e il fatto che, in quanto costruzioni pragmatiche e contingenti, esse possono sempre essere articolate e trasformate dalla lotta agonistica. A differenza dei modelli liberali, questa prospettiva agonistica tiene conto del fatto che ogni ordine sociale è politicamente istituito e che il terreno degli interventi egemonici non è mai neutrale, poichè è sempre il prodotto di precedenti pratiche egemoniche. Per quanto riguarda lo spazio pubblico, lungi dall’essere inteso – come per esempio in Habermas – quale terreno privilegiato per la ricerca del consenso, il mio approccio agonistico lo concepisce come il campo di battaglia dove i progetti egemonici si scontrano, senza possibilità alcuna di riconciliazione finale.
Questo è un brano della relazione che la filosofa inglese terrà domenica a Modena all’interno del Festival della Filosofia
Traduzione di Michelina Borsari
Fonte: il manifesto
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