La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 17 settembre 2016

Contro la classe lavoratrice: le politiche identitarie nell’era neo-vittoriana

di Maximilian C. Forte
Il neo-vittorianismo non serve solo a distrarre la politica verso le questioni della moralità e dell’identità, ma anche a offuscare le basi della crescente disuguaglianza. Se ci concentriamo sul Partito Democratico e sul suo abbandono della classe lavoratrice nel corso degli ultimi quaranta anni, Adolph Reed Jr. (professore di scienze politiche all’Università di Pennsylvania) sembra aver inteso fin dall’inizio come tutte queste questioni siano collegate tra loro — sebbene lui non usi l’espressione “neo-vittorianismo”, lo descrive con altre parole.
Parlando dei democratici e dei “liberals” in generale, scrive: “la loro capacità di dimostrare il più sublime fervore per i più vuoti e insipidi luoghi comuni, la loro tendenza a fare dei modi un feticcio trascurando la sostanza, a cercare le soluzioni tecniche ai problemi politici, la loro capacità di trascurare il crescente massacro sociale nelle stesse città in cui vivono mentre cercano i locali migliori dove bersi un buon caffè con le focaccine, la loro propensione ad estetizzare l’oppressione delle altre persone chiamandolo attivismo, il loro riflesso di storcere il naso e accigliarsi di fronte a un conflitto e, più di tutto, la loro inettitudine e inaffidabilità nel corso delle crisi”. (Reed, 1996)
Vent’anni fa Reed criticava “il loro rifiuto di affrontare le realtà di classe nella politica americana“, e il modo in cui i liberal “evitando di fare qualsiasi collegamento tra le disuguaglianze e l’uso che le grandi imprese [corporation]fanno del potere politico per abbassare gli standard di vita dei più e accrescere il proprio bottino“. Al contrario, rispetto al problema dell’emarginazione sociale negli USA optano per una melliflua e sentimentale politica del “salvate i bambini!“, che demonizza i genitori della classe lavoratrice nello stesso modo della destra. Reed conclude che le politiche dei liberal “sono motivate da un desiderio di vicinanza alla classe dirigente, e dalla credenza che quest’ultima sia fondamentalmente legittimata ad avere proprio potere e le proprie prerogative. È una politica che, a dispetto di tutte le sue iperboli idealiste e della sua affettata nobiltà, è disposta a svendere qualsiasi alleato e qualsiasi obiettivo egualitario pur di giungere all’orecchio del Principe” (Reed, 1996).
La critica fatta da Reed poi si amplia oltre i confini del Partito Democratico, per includere gli attivisti di sinistra e i movimenti laburisti, e solleva una questione che io stesso ho toccato recentemente quando scrivevo che “sembra ora chiaro che ogni settore e declinazione della sinistra statunitense ha fatto una sorta di pace con il neoliberismo, una pace con la struttura base dello status quo, da cui pende ogni loro speranza, incluso quel minimo di umanitarismo, cosmopolitismo e riformismo“. Ecco come lo diceva Reed: “il movimento laburista è stato largamente sottomesso, e gli attivisti sociali hanno fatto pace con il neoliberismo e hanno modificato di conseguenza i propri obiettivi. Nel movimento femminista gli obiettivi sono mutati da obiettivi pratici, come la parità di salario e l’assistenza universale per l’infanzia negli anni ’80, alla celebrazione delle singole donne che riescono a raggiungere una funzione pubblica rilevante. Le figure dominanti nel movimento pacifista hanno da tempo accettato il frame dell’interventismo militare americano. Il movimento per la giustizia razziale ha svoltato dall’attenzione alla disuguaglianza a quella verso la ‘disparità’, evitando in definitiva ogni critica alla struttura che produce la disuguaglianza” (Reed, 2014)
Su Obama, Reed commenta come egli rappresenti ampiamente una finzione costruita dalla politica identitaria: “Obama è il puro prodotto di questa politica svuotata. È il trionfo dell’immagine e dell’identità rispetto al contenuto. Anzi, è il trionfo dell’identità stessa in quanto contenuto” (Reed, 2014). Proprio come Obama, che come semplice immagine doveva svolgere una funzione anti-insurrezionale interna — una pacificazione —, così le politiche identitarie dovevano soffocare la divisione di classe: “L’asserzione di una storia fondamentalmente antagonistica tra movimenti del lavoro e movimenti sociali, specialmente quelli fondati su una identità di base come razza, genere o orientamento sessuale, è il riflesso del discorso che ci sia una sinistra identitaria, fomentato dagli stereotipi su una classe lavoratrice organizzata che è bianca, maschile e conservatrice. Questa tradizione politica, sebbene abbia una qualche base nei fatti storici, si è consolidata in una conoscenza mai esaminata a fondo da parte di molti attivisti” (Dudzic & Reed, 2015, p. 361)
Siamo arrivati al punto incredibile in cui quelli che sostengono la classe lavoratrice sono visti come, nel migliore dei casi, degli ottusi razzisti. Questo non è un trionfo del neo-vittorianismo, è piuttosto il segno della loro disperata ostinazione nel momento in cui il loro progetto crolla sotto il peso del risentimento, della rivolta e perfino del ridicolo. Un segno del successo dei neo-vittoriani, piuttosto, è la misura nella quale la “sinistra” è stata svuotata di significato o di forza pratica, arrivando praticamente a ridursi ad una fiction.
Comprendere la Storia e il neo-vittorianismo
Uno dei problemi persistenti quando si parla del vecchio e del nuovo vittorianismo è comprendere la tempistica e l’apice del fenomeno. La vecchia era vittoriana, quella britannica, sengò un periodo di sicurezza, di espansione economica e territoriale. La nuova era vittoriana, quella americana, giunge anch’essa in un periodo di espansione e di moltiplicazione delle guerre, ma anche con un senso di crisi in costante peggioramento e di insicurezza in casa propria. Per ora non so dire altro sul problema, posto che esso sia un problema.
Ci sono altre differenze fondamentali: dai tempi della vecchia età vittoriana c’è stato un grande declino dell’illusione sulla certezza dell’ordine naturale. La nostra comprensione della natura è tale che ne abbiamo una visione come qualcosa di caotico e imprevedibile (Hewitt, 2006, pp. 418-419). Un’altra grande differenza è che la cultura vittoriana non era una cultura consumistica — c’era generalmente una consapevolezza della scarsità, del limite nei lussi della vita, e c’era una gamma più ristretta di beni di consumo tra cui scegliere (Hewitt, 2006, pp. 415-416).
D’altra parte penso che il “neo-vittorianismo” nordamericano rappresenti un declino in sé e per sé, e sia per questo alquanto distinguibile dal vittorianismo originale. Molti dei nostri politici, giornalisti e accademici non sopravviverebbero per cinque minuti a una intervista con un loro antenato della vecchia era vittoriana. A dirla francamente e per come la vedo, penso che il nostro neo-vittorianismo sia una versione degradata di quello originale: meno articolato, in difficoltà sul vocabolario e la grammatica e, cosa più importante, privo di capacità logiche e analitiche sufficientemente sviluppate. Sembra che siamo afflitti da un problema generale: l’incapacità di capire che le pie illusioni non sono delle analisi, che ciò che pensiamo che il mondo dovrebbe essere non può descrivere come esso è.
Uno degli altri problemi che mi mette in difficoltà a fare parallelismi tra il secolo presente e il diciannovesimo secolo è il rischio di rinforzare la tendenza a vedere il presente e il futuro come una semplice replica del passato. L’errore storicista è quello di pensare che non ci possa essere un proseguimento della Storia, che essa sia di fatto terminata nel diciannovesimo secolo, quel secolo nel quale Hegel proclamava proprio la fine della Storia. Il principale vantaggio nel concettualizzare il “vittorianismo” (vecchio e nuovo) non è quello di suggerire che la cultura occidentale sia una eterna ripetizione di se stessa, ma di suggerire quanto due imperi culturalmente, ideologicamente e tecnologicamente vicini abbiano un declino simile, e quanto il neo-vittorianismo non segni l’apice ma l’inizio della dissoluzione del nuovo imperialismo. Ciò sembra specialmente vero dato che quest’ultimo sta iniziando a divorare se stesso in casa propria.
Un’altra questione ha a che vedere con il modo in cui misuriamo i periodi, e come trattiamo i periodi (che sono delle costruzioni arbitrarie degli analisti) come se fossero dei fatti reali. Rischiamo quindi di trattare le misure del tempo come se fossero delle realtà sociali, e di trattare la cronologia come se fosse la Storia. Un modo di affrontare questo problema è di vedere il diciannovesimo secolo come molto più lungo di quanto pensassimo, con discontinuità e cambiamenti non abbastanza sostanziali da giustificare una demarcazione netta di inizio e fine. In questo caso il vecchio vittorianismo rappresenterebbe l’apice dell’egemonia, e il nuovo vittorianismo un punto sulla curva del declino, con delle contraddizioni irrisolte che ci gettano verso un mondo post-imperiale e post-occidentale. Dubito che questo significhi la fine della civiltà occidentale e del capitalismo, ma solo che queste cose servano sempre meno come punto di riferimento per un ordine globale unitario. Anche in questo caso non si può dire altro sul tema, per ora.
Siamo anche ostacolati da quelli che hanno scritto sugli imperi e sull’imperialismo. Molti di coloro che hanno scritto sull’impero britannico non vedono come ci possa essere un imperialismo che continua anche dopo la fine del colonialismo britannico — perché confondono l’imperialismo con il colonialismo, quando il colonialismo potrebbe semmai essere una delle modalità con cui si costruisce un impero. Dall’altra parte ci sono quelli che vedono l’imperialismo attuale come una trasformazione netta rispetto a quello britannico, e riducono quello britannico a una modalità singolare e stereotipica di colonizzazione.
Un’altra cosa di cui non ci occupiamo qui è perché il vittorianismo sia emerso come tale. Perché l’enfasi sul commercio, sulla filantropia e sulla buona governance? Penso che abbia in larga parte a che vedere con la necessità del capitale di espandersi. Il perseguimento del libero commercio richiede la standardizzazione, richiede di sbarazzarsi dei rivali con campagne di propaganda e politiche di emancipazione (anti-schiavitù allora, anti-omofobia ora). Queste campagne imperiali “per la liberà”, che sono al servizio della crescita capitalista, si portano dietro come surrogati anche il “soft power” [potere di persuasione] e l’incantamento, anche se nel contempo viene scatenata la più orribile violenza. Comunque, qui un rischio è quello di argomentare che tutto ciò sia, in definitiva, esclusivamente il prodotto delle determinazioni del capitale. Il capitale, di per sé, è un cumulo di spazzatura inanimata (per parafrasare un collega). Il capitale ha bisogno di interagire con le idee, le motivazioni, le compulsioni e la pratica. Ma quando, come e perché le idee liberiste si siano formate e siano ascese così, è una domanda più ambiziosa che richiede più ricerca da parte mia.
Nonostante queste difficoltà e problemi sul vittorianismo, è utile fare quanto segue:
1. comprendere come parti disparate di una formazione sociale e culturale si ritrovino assieme, come formino un insieme durevole e come si rinforzino a vicenda;
2. fornire una base storica per percepire l’attuale cultura dell’imperialismo;
3. sollevare la questione sulla ciclicità della storia e su come possiamo anticipare “ciò che verrà”;
4. gettare una luce sulle origini storiche e culturali delle idee che plasmano il dibattito politico attuale.

Articolo pubblicato su Zero Anthropology
Fonte: vocidallestero.it 

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