di Giovanna Zapperi
Il filosofo e storico dell’arte francese Georges Didi-Huberman è senza dubbio una delle figure che più hanno rinnovato lo studio delle immagini. Nella sua sterminata produzione si è interessato tanto al coinvolgimento delle immagini nella formazione del sapere, quanto alla loro capacità di agire nella storia, attraverso quello che potremmo definire come un «atto d’immagine» (per riprendere una fortunata formula dello storico dell’arte Horst Bredekamp). I suoi saggi più recenti affrontano la questione dell’immagine nel suo significato politico, come gesto di resistenza o come modalità che permette di pensare la complessità del presente.
L’ESPOSIZIONE SOULÈVEMENTS, che Georges Didi-Huberman ha curato per il Jeu de Paume a Parigi, solleva anch’essa una serie di questioni politiche, attraverso il dispiegamento di un «atlas» delle forme della sollevazione nella modernità, secondo il modello fornito, ormai un secolo fa, da Aby Warburg.
La mostra (fino al 15 gennaio 2017) si incentra sulle relazioni che si stabiliscono tra immagini realizzate in contesti ed epoche diverse, soffermandosi in particolare sulla definizione di alcune tipologie visuali, che rimandano ad altrettanti gesti e atteggiamenti corporei, attraverso le quali si dispiega il percorso espositivo: «elementi scatenati», «gesti intensi», «parole esclamate», «conflitti incendiari», «desideri indistruttibili».
Questi titoli dal forte impatto emotivo scandiscono le diverse sezioni dell’esposizione, articolando insieme una serie di elementi apparentemente disparati: opere d’arte, documenti d’archivio, fotografie, ritagli di giornale, film e video sono presentati senza alcuna gerarchia tra epoche, materiali e supporti diversi.
L’effetto è quello di una costellazione di gesti, messi in rapporto tra loro attraverso una temporalità non-lineare, incentrata su una serie di temi declinati attraverso modalità estremamente eterogenee tra di loro.
Nella sezione dedicata alle «parole esclamate», ad esempio, la destrutturazione dadaista del linguaggio coesiste con l’installazione video Easy to remember (2001) di Lorna Simpson, in cui delle bocche di donne e uomini african-american mormorano il motivo di una canzone, suggerendo una presa di parola collettiva che prende forma nonostante l’imposizione del silenzio.
NELLA SEZIONE DEDICATA agli «elementi scatenati» troviamo ad esempio La Sculpture mouvante (1920) fotografia di Man Ray che mostra delle lenzuola stese agitate dal vento, mentre, poco più in là, un montaggio fotografico dell’artista brasiliano Helio Oiticica relativo ai Parangolé (1972) in cui i gesti, i colori, i tessuti e i corpi interagiscono insieme.
La mostra è improntata al pathos e a un’espressività che appaiono spesso sganciati dall’evento, inteso come il momento in cui fa irruzione il gesto di rivolta, al punto che non di rado si perde di vista il nesso tra l’immagine, il gesto e la sollevazione. Il pathos tende a prendere il sopravvento, rischiando di non cogliere la possibilità di osservare gesti e immagini come qualcosa che esprime affetti ed emozioni, ma anche significato, conflitto e possibilità di agire.
COME SPESSO ACCADE nei tentativi che ambiscono a una dimensione enciclopedica, il risultato appare per la verità piuttosto parziale. Le scelte del curatore emanano dai suoi specifici interessi che, certo, spaziano attraverso continenti ed epoche storiche diverse, ma lasciano fuori aspetti cui spetterebbe forse un qualche ruolo se ci si vuole interrogare sulle forme storiche della rivolta. Salta agli occhi, in particolare, come la mostra presenti il soggetto della sollevazione come un soggetto maschile e, tendenzialmente, europeo. Le lotte femministe sono totalmente assenti (se escludiamo una caricatura di Daumier contro le donne socialiste che, nell’800, chiedevano il diritto al divorzio).
Questo vuoto è tanto più evidente se consideriamo che la mostra mette a fuoco una serie di rivolte storicamente significative: il sessantotto, la rivoluzione francese, la Comune parigina, la rivoluzione messicana, la guerra di Spagna e, in misura minore, le rivolte che hanno infiammato i paesi arabi in anni recenti. Se escludiamo le isteriche fotografate da Charcot all’ospedale della Salpétrière, l’unico soggetto femminile in grado di sollevarsi è rappresentato dalle madri argentine di plaza de Mayo.
LE RIVOLTE ANTI-COLONIALI sono altrettanto rimosse dall’orizzonte di questa esposizione. La loro (scarsa) presenza sembra improntata alla figura del fantasma e al processo ancora attivo di rimozione del passato coloniale della Francia, con le conseguenze disastrose che conosciamo: la figura di Frantz Fanon è evocata come un’ombra, la guerra d’Algeria è sottintesa in alcune opere di Raymond Hains che suggeriscono proprio il clima di censura di quegli anni, mentre non c’è traccia delle sollevazioni che hanno infiammato la Francia nel 2005.
Ma al di là di queste scelte, viene da chiedersi se sia davvero inevitabile che il tentativo di pensare il nesso tra estetica e politica in una mostra che si svolge in un museo di arte debba necessariamente essere così sbilanciato verso l’estetica. Si potrebbero citare degli esempi alternativi, ma senza allontanarsi troppo, è lo stesso Didi-Huberman, in alcuni dei suoi saggi, a fornire una chiave di lettura capace di tenere insieme forma e contenuto, segnalando il portato politico di quanto avviene nella sfera delle sensazioni.
La mostra del Jeu de Paume sceglie di pensare la sollevazione attraverso l’eroismo dell’epopea: ogni singolo gesto di rivolta rischia così di essere recuperato all’interno di grandi narrazioni che quei gesti tentavano incessantemente di smantellare.
Fonte: Il manifesto
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