La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 13 novembre 2016

John Maynard Trump?

di Francesco Saraceno
Una frase del discorso di vittoria di Donald Trump ha ricevuto una buona dose di attenzione: "Ripareremo le nostre città e ricostruiremo le nostre autostrade, i ponti, le gallerie, gli aeroporti, le scuole, gli ospedali. Ricostruiremo la nostra infrastruttura, che diventerà, tra l’altro, seconda a nessuno. E nel farlo daremo lavoro a milioni di cittadini." Questa frase è stata ampiamente citata sui social, insieme a quest’altra, tratta da un articolo del Financial Times sulla Fed"In particolare, alcuni membri del suo team di consulenti economici sono convinti che le banche centrali come la Federal Reserve abbiano esaurito la loro capacità di implementare politiche monetarie ultra-accomodanti.
Nei prossimi mesi, invece, sperano di annunciare una nuova ondata di misure quali la spesa in infrastrutture, la riforma fiscale e la deregolamentazione per stimolare la crescita – e combattere otto anni di stagnazione economica."
Nonostante la vaghezza di queste dichiarazioni, l’idea di una spinta infrastrutturale ha fatto decollare i mercati. In altre parole, un semplice (e piuttosto generico) discorso pronunciato la notte delle elezioni ha dissipato tutta l’ansia circa la lunga fase di incertezza che abbiamo di fronte. Alla faccia dell’efficienza dei mercati…
Ma non è questo che mi interessa. Il punto che voglio sottolineare è che l’annuncio di Trump ha innescato una reazione strana. Una cosa del tipo: «Vedete? Trump è riuscito a rompere l’ostilità dell’establishment nei confronti di Keynes e ad attuare finalmente le politiche di stimolo di cui abbiamo bisogno. Dimenticate il sessismo e i riferimenti alla f**a, gli attacchi contro le minoranze, l’incompetenza. Benvenuto Trump, addio neoliberismo». È una reazione che ho notato soprattutto (ma non solo) tra gli internauti italiani, che tendono a proiettare la situazione europea in altri contesti.
Beh, ho alcune riserve su questa affermazione. Da dove iniziare? Forse dal “Contratto con l’elettore americano”, che, insieme alla (generica, ripetiamolo) promessa di nuovi investimenti, ha anche promesso un ritiro massiccio dello Stato dall’economia? O dal fatto che Obama, “l’uomo dell’establishment”, ad un mese dal suo insediamento ha fatto votare al Congresso un “Recovery Act (ARRA)” pari al 7% del PIL, che ha evitato il tracollo dell’economia e ha contributo a ripristinare la crescita? O dal fatto che gli “anti-establishment” del Tea Party hanno spinto per l’austerità fino da 2011, fino ad arrivare al culmine del “sequester” nel 2013.
I critici delle politiche di austerità in Europa non dovrebbero farsi illusioni. Trump non è il John Maynard Keynes del 2016. Il suo programma è, in linea di massima, un misto di deregolamentazione, tagli alle tasse per i ricchi e ritiro dello Stato dall’economia. Per non parlare della forte possibilità di una Fed più aggressiva in futuro. Per riassumere, Trump, nel migliore dei casi, sarà un nuovo Reagan, in cui il keynesismo militare verrà sostituito da un vago keynesismo infrastrutturale (“più ponti”). E dovremmo tutti sapere sappiamo che la Reaganomics ha brillato molto meno di quanto si dica.
Quei progressisti alla ricerca di un’agenda più keynesiana avrebbero dovuto guardare più attentamente al piano proposta dalla “candidata dell’establishment” Clinton: una significativa spinta infrastrutturale (l’accento sulle infrastrutture era l’unico punto in comune tra i due candidati), finalizzata ad un “crowd-in” degli investimenti privati. E, cosa importante, questa politica fiscale espansiva era inquadrata all’interno di un ruolo più attivo del governo in settori chiave come l’istruzione e l’assistenza sanitaria, e di una maggiore progressività del sistema fiscale.
Avremmo avuto una Hilary Rodham Keynes? Purtroppo non lo sapremo mai…

Articolo pubblicato sul blog dell’autore il 10 novembre 2016. 
Traduzione di Thomas Fazi
Fonte: Eunews Oneuro

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