di Pietro Raitano
L’economista Elena Sisti vive a Milano e ha quattro figlie. Nello spiegare a una di queste -che frequenta la scuola media- la differenza tra i vari settori dell’economia (primario, secondario, terziario) ha cercato di farle comprendere l’esistenza di un quarto settore: quello domestico. “Inutile il mio tentativo di convincere mia figlia che definire ‘inattive’ persone che contribuiscono all’economia italiana più del settore automobilistico è un falso ideologico e un errore metodologico. Inutile ovviamente sottolineare che il fatto che la maggior parte di questo contributo sia storicamente frutto di lavoro femminile è la ragione principale -e forse unica- per la quale il suo valore non viene sistematicamente calcolato. ‘Mamma, sei la solita esagerata’, mi ha detto”.
Il dialogo coglie nel segno uno dei fraintendimenti più clamorosi del nostro tempo: economia e mercato non sono la stessa cosa. “L’economia è l’attività di produzione di beni e servizi: che tale produzione avvenga all’interno delle mura domestiche o venga invece svolta in cambio di un salario non fa alcuna differenza -spiega Sisti-. Questo vale anche per gli ambiti associativi e di volontariato. Considerare l’economia nel suo complesso e non limitarsi al solo mercato non è solo questione di ‘rivendicazione femminile’, ma soprattutto il desiderio di fornire strumenti più corretti e completi per le scelte di politica economica. A beneficiarne -conclude Sisti- sarebbe il sistema economico nel suo complesso”.
Così come l’economia non è solo mercato (e denaro), così il benessere non è solo ricchezza (e quindi, ancora, denaro). E anche in questo caso, le misurazioni “alternative” sul benessere passano quasi sempre in secondo piano rispetto alle letture “tradizionali”: prodotto interno lordo, tasso di occupazione, indici di Borsa.
A metà dicembre 2016 l’Istat ha presentato il suo quarto “Rapporto sul Benessere equo e sostenibile” scontando la consueta disattenzione dei media e della pubblica opinione. Eppure la ricerca (130 indicatori, articolati in 12 domini: salute, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, ricerca e innovazione, qualità dei servizi) racconta molto di noi e delle nostre vite. Certamente si può discutere di tutto, ma il quadro che ne emerge è molto più sfaccettato rispetto all’ossessione per lo “zero virgola” di Pil. Ad esempio i livelli di istruzione crescono -pur rimanendo lontani dagli standard europei- e migliorano le condizioni di salute dei cittadini.
Per contro, la “moderata” crescita del reddito disponibile non ha modificato la disuguaglianza -che rimane al livello più alto dell’ultimo decennio, saldamente sopra la media europea-: il 20% della popolazione più abbiente dispone di risorse 5 volte superiori al 20% più povero. Soprattutto, “la soddisfazione per le relazioni interpersonali è molto bassa nel nostro Paese” spiega l’Istat. Nell’ultimo anno solo un quarto della popolazione dichiara di aver svolto attività di partecipazione sociale, così come molto bassa rimane la fiducia nelle istituzioni. E con essa, diminuisce la quota di persone che guardano al proprio futuro con ottimismo: solo il 26% pensa che le cose miglioreranno nei prossimi 5 anni. Infine, nel Paese in cima alla lista del patrimonio mondiale Unesco, il quadro complessivo dell’ambito “paesaggio e patrimonio culturale” segnala in molti casi “difficoltà e arretramenti. Si è infatti ridotta la spesa pubblica destinata alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale e continua a crescere il tasso di abusivismo”.
Nel suo recente “Non ti riconosco. Viaggio eretico nell’Italia che cambia” (Einaudi) il professor Marco Revelli ha usato -magistralmente- queste parole: “Nel corso di questo lungo viaggio erratico tra le pieghe di un Paese sospeso, ho incontrato un’infinità di tracce di metamorfosi istantanea. Di promesse appena immaginate e già mancate. E i segni di mappe che non valgono più. Ma non riesco a considerarli simboli di un paradiso perduto”.
Fonte: Altreconomia
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