La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 30 aprile 2017

La cultura della Costituzione per ripensare la sinistra

di Paolo Ciofi
1. Sinistre, sinistra e il senso dell'alternativa
La sconfitta del capo del governo e segretario del Pd nel referendum istituzionale, che ha respinto - dopo quello messo in atto da Silvio Berlusconi - il secondo tentativo di conformare la Costituzione sugli interessi di una minoranza dominante organica al capitale finanziario, è stata clamorosa per effetto di una forte e inattesa (dagli esperti) partecipazione democratica seppure diversamente motivata. E ha aperto una stagione piuttosto convulsa di congressi, di fondazioni e separazioni, nonché di intenzioni spesso divergenti, nello schieramento del sistema politico denominato di sinistra. Cerchiamo allora, prima di tutto, di fare il punto su una situazione che al momento appare piuttosto confusa e tutt’altro che consolidata.
In estrema sintesi, il quadro si presenta ai nostri occhi con i tratti che seguono. È nata Sinistra italiana, fuoriuscita dal travaglio doloroso di Sel, il partito di Nichi Vendola, il cui scopo consiste «nel costruire una sinistra di tutte e di tutti, radicale, credibile, autonoma, popolare». Ma che, nel momento stesso in cui è venuta alla luce, ha perso una parte non irrilevante di se medesima, confluita nelle file di coloro i quali, a loro volta, fuoriusciti dal Pd di Matteo Renzi, hanno dato luogo a un’altra formazione politica. Con travagli più o meno dolorosi come quelli di Massimo D’Alema e poi di Pier Luigi Bersani.
Sebbene lo statista di Rignano sull’Arno confermi di voler procedere senza tentennamenti sulla linea del referendum costituzionale, bocciata secondo lui non perché era sbagliata ma perché il Pd non è riuscito «a far capire quanto fosse importante per l’Italia la riforma», l’obiettivo strategico del raggruppamento Articolo uno-Movimento democratici e progressisti sembra essere oggi quello di «un centro sinistra largo», come ha sostenuto Bersani. Cioè di un’alleanza di governo con il partito di Renzi, dal quale lo stesso Bersani alla fine è fuggito.
Una strategia alquanto contraddittoria, che in conclusione si risolve, a quanto sembra, in una tattica governista di non grande respiro, sebbene al momento non sia chiaro il destino del Pd e tutto lo schieramento politico sia in fibrillazione in vista delle elezioni politiche. Comunque, in attesa anche di ciò che deciderà di fare con il suo campo progressista l’avvocato Giuliano Pisapia, il quale a sua volta è in attesa di sapere se Renzi continuerà ad allearsi con il pluricondannato Denis Verdini o se invece si rivolgerà a specchiate persone della sinistra di governo, nel Mdp è emersa una divergenza non da poco sulla valutazione del Movimento 5 Stelle, e quindi sulla opportunità di aprire un dialogo o di alzare le saracinesche nei suoi confronti.
In questo quadro assai mosso, nel quale gli schieramenti prevalgono sui contenuti e sono visibili tendenze diverse se non addirittura opposte, Paolo Ferrero ha rilanciato al recente congresso di Rifondazione comunista, nella sua ultima relazione da segretario, un appello per dare vita a «un soggetto unitario della sinistra antiliberista, autonoma e alternativa al Pd». Dopo che, nel giugno 2016, si è costituito un altro piccolo partito della sinistra, denominato PCI, dalla trasformazione del PCdI e da militanti della stessa Rifondazione. Sostiene Ferrero che c’è bisogno di «un soggetto unitario e plurale», il quale, «senza chiedere scioglimenti a chicchessia, si presenti alle elezioni con un simbolo costante nel tempo e sia in grado di sviluppare iniziativa su tutti i nodi politici e sociali».
Una proposta non nuova, di fatto lasciata cadere dai principali attori del dramma che ormai in chiave farsesca sembra ripetersi a sinistra, e ripresa solo da Pippo Civati. Una indicazione, peraltro, che può essere utile, come è accaduto in alcune città, per presentare liste unitarie nei territori dove si sono compiute esperienze comuni, ma che appare insufficiente per costruire un’alternativa politico-culturale ed economico-sociale al dominio totalitario del capitale. Il quale - non dimentichiamolo - nella fase della globalizzazione finanziaria, vale a dire nella massima espressione del suo trionfo, tende a distruggere l’equilibrio naturale del pianeta per effetto delle sue interne contraddizioni, e a sottomettere e svalorizzare gli esseri umani, comprati e venduti al mercato come ogni altra merce, o lasciati deperire nell’esclusione e nell’abbandono perché non funzionali alla realizzazione del profitto. Questo è il brillante risultato ottenuto dalla illimitata libertà del capitale, vale a dire dalla sua dittatura: gli esseri umani al servizio dell’economia, non l’economia al servizio degli esseri umani. In Europa e nel mondo, e così anche in Italia.
In tale condizione, dobbiamo constatare che nell’insieme gli orientamenti oggi prevalenti nel variegato mondo denominato di sinistra tendono, come nel passato, a porre in primo piano la questione elettorale, e quindi del governo. Sottostimando il tema cruciale posto dal persistere drammatico della crisi, che reclama una alternativa al sistema dominante, di conseguenza la costruzione di una sinistra in grado di misurarsi con le contraddizioni nuove della modernità capitalistica, e dunque con le concrete condizioni materiali e ideali in cui vive la stragrande maggioranza delle donne e degli uomini del nostro tempo. Come se il governo fosse il fine ultimo, l’obiettivo prioritario in sé indipendente dai contenuti, e non strumento per cambiare la società, che una sinistra non imbozzolata nella gestione (più o meno astuta) dell’esistente dovrebbe assumere.
Che senso ha oggi dirsi di sinistra se non ci si misura con le mutazioni profonde, peraltro in perenne movimento, che coinvolgono congiuntamente il capitale e il lavoro? Se non si lotta per dare organizzazione, rappresentanza e rappresentazione, alle lavoratrici e ai lavoratori del nuovo secolo, generati dalla rivoluzione scientifica e digitale in atto, che non abolisce il lavoro, ma cambia il modo di lavorare, di comunicare, di vivere? Se non si offre dignità e speranza, libertà e uguaglianza a tutti coloro i quali, bianchi, gialli e neri, uomini e donne, giovani e vecchi, di qualsiasi fede religiosa, per vivere hanno bisogno di lavorare? Se ai ceti intermedi impoveriti e a tutti coloro che soffrono per la crisi non si offre una sponda di vicinanza e di solidarietà? Se tutti insieme non si lotta per una civiltà più avanzata, oltre le colonne d’Ercole di un capitalismo decadente, e perciò feroce e distruttivo? Questo tema è nelle cose. E va posto con intelligenza e duttilità, al tempo stesso con la determinazione necessaria, se non si vuole che prevalgano forze nazionaliste, di destra e fascistiche, che attizzano la concorrenza e la guerra tra poveri. Con attenzione occorre guardare all’elettorato popolare, in particolare a quello dei 5 Stelle, che non sono la causa della crisi, ma il prodotto contraddittorio della crisi e di una politica asservita e corrotta che l’hanno aggravata.

2. Il riformismo è morto, serve una nuova cultura
Lasciamo andare le dissertazioni più o meno interessate sul populismo e restiamo ai fatti. Con la bocciatura della controriforma costituzionale da parte degli italiani, e con il successivo strappo di D’Alema e Bersani, è venuto in chiaro senza possibilità di equivoci il fallimento di un’operazione nata alla Bolognina il 12 novembre 1989 e conclusasi il 4 dicembre 2016. Doveva nascere una nuova sinistra di governo cancellando il Pci, si è prodotta invece la mutazione genetica della sinistra, con la conseguente espulsione del lavoro dal sistema politico. Fino al tentativo di mettere in discussione anche formalmente la Costituzione, vale a dire l’impianto democratico del Paese che proprio nel lavoro trova il suo fondamento.
In definitiva Renzi e il renzismo sono il prodotto del fallimento di un’intera classe dirigente, che ignorando la portata innovativa della Costituzione si è rivelata incapace di progettare il futuro dell’Italia e dell’Europa nella fase della globalizzazione del capitale. Dopo aver toccato con l’approvazione della Carta del 1948 e con le lotte per la sua effettiva applicazione la vetta più alta del nostro tormentato cammino verso la libertà e l’uguaglianza, muovendo da Occhetto e passando per D’Alema e Veltroni, inventore del partito a vocazione maggioritaria come espressione della borghesia dominante secondo il modello americano, siamo pervenuti con Renzi a una vera e propria retrocessione verso il passato, che rompe con l’interclassismo della vecchia Dc e ha ben poco a che vedere con la predicazione di papa Bergoglio. Vale a dire, al tentativo di stabilizzare la libertà totalizzante del capitale all’interno di un sistema politico monoclasse, garantendo l’alternanza tra diverse componenti della borghesia dominante rinnovata nei metodi e negli assetti del potere. Il tutto mascherato da un linguaggio demagogico e falsificante, volto a far apparire di sinistra ciò che nei contenuti e nei metodi di governo è sostanzialmente di destra.
A questo esito si è giunti per effetto di due processi concomitanti che hanno coinvolto la sinistra. Da una parte, sul fronte della sinistra cosiddetta governista, invece di muovere dai principi costituzionali per dare nuova linfa e contenuti più avanzati alla democrazia, il Pd si è blindato all’interno di vecchi assiomi liberali: la non trasformabilità del sistema, assunto come un dato di natura e come se il capitalismo fosse l’approdo definitivo della storia; l’abbandono dell’analisi di classe della società, considerata una somma di individui privi di qualità sociale; la presa di distanza dalla cultura della Costituzione come progetto di cambiamento, fondato sulla democrazia progressiva e sulla partecipazione popolare. Come è noto, è stato il compianto Alfredo Reichlin a osservare che il Pd ha confuso il riformismo con il liberismo. Ma in tal modo si è diffusa una crisi democratica devastante, aggravata dal ricorso a leggi elettorali maggioritarie, che trasformano una minoranza di elettori in maggioranza assoluta degli eletti.
D’altro canto, sul fronte opposto della sinistra cosiddetta alternativista, è emersa chiaramente l’assenza di una strategia adatta alla trasformazione della società nell’Occidente avanzato, in Italia e in Europa. Ignorata di fatto quella tendenza del marxismo creativo, che da Gramsci attraverso Togliatti e Longo conduce fino a Berlinguer, e messo quindi in parentesi il progetto di nuova società delineato dalla Costituzione considerata poco più di un ammennicolo neoborghese, questa sinistra, nonostante l’impegno generoso di tanti e tante militanti, non è riuscita a uscire da uno stato di minorità politica e culturale, pur dichiarandosi rappresentante della classe operaia che però non l’ha riconosciuta come tale.
Perciò occorre un taglio netto rispetto al passato. Non serve la riproposizione, trita e ritrita, del riformismo. Cosa significa oggi riformismo? Una parola malata, ha osservato il vecchio riformista Cofferati, perché concausa della crisi che il mondo sta attraversando. Con la quale si sono coperte le più svariate operazioni pro business di Clinton e dei padri nobili della socialdemocrazia europea: da Blair e Schröder fino a Hollande. E che è servita a tradurre in termini politici le regole imposte dai mercati globalizzati. È arrivato il momento di prendere atto che la fase socialdemocratica del movimento dei lavoratori si è da tempo conclusa non con un compromesso tra capitale e lavoro, ma con la completa resa del lavoro al capitale: nel pensiero e nella prassi.
Non basta però la critica al liberismo, sulla quale sembrano attestarsi diverse componenti della sinistra alternativista. È necessaria una cultura critica della realtà, se vogliamo trasformarla. Questa realtà è il capitalismo globale, e la società in cui viviamo, al di là delle formule attenuanti per edulcorarla, ha un nome preciso: si chiama società capitalistica. Perché - uso le parole di Luciano Gallino - «ha nel capitale il suo motore, la ragion d’essere, la sostanza che lo alimenta e tiene in vita». Dunque, se si vuole rovesciare lo stato delle cose presente, non basta contrastare l’ideologia della classe dominante, è necessario conoscere e mettere a nudo il meccanismo di funzionamento del capitale, e gli effetti che provoca sull’insieme della società.
Se è vero che la cultura dominante è la cultura della classe dominante, allora c’è bisogno oggi di un sovrappiù nell’esercizio della critica per mettere in luce che il capitale non è una “cosa”, un accumulo di merci o di mezzi finanziari, e tantomeno un algoritmo, ma una relazione, un rapporto sociale che fissa la divisione della società in classi. Tra chi è proprietario dei mezzi necessari alla produzione di beni e servizi materiali e immateriali, e pertanto alla riproduzione della vita stessa, e chi al contrario è proprietario esclusivo delle proprie attitudini fisiche e intellettuali che porta al mercato in cambio dei mezzi per vivere.
Nella modernità il capitale si mostra in tutta la sua violenza e brutalità come un rapporto sociale in cui compare il proprietario e l’espropriato, lo sfruttatore e lo sfruttato, il dominante e il dominato. Questa è la realtà del mondo di oggi, con le specificità derivanti dalla storia e dalla cultura di ciascun Paese. Il problema allora non è il liberismo, bensì il capitalismo, con le sue contraddizioni e il conflitto tra le classi. Tuttavia, se il capitalismo scompare dall’orizzonte della cultura e della politica della classe lavoratrice e dei ceti subalterni, non c’è alcuna possibilità del suo superamento verso una civiltà superiore. Sebbene sia questo il tema che il nostro tempo ci propone, in un mondo sconvolto dalla crisi del capitale.

3. La Costituzione: il progetto di cambiamento per cui lottare
Redistribuzione! Di fronte alla crescita smisurata e insopportabile delle disuguaglianze, questo slogan si sta facendo strada in vari ambienti della sinistra. Ma c’è bisogno di chiarezza. Se il capitale, secondo l’analisi critica di Carlo Marx, oggi più che mai indispensabile per scoprire il codice genetico del capitalismo globale, è «un determinato rapporto di produzione sociale» ed è «costituito dai mezzi di produzione monopolizzati da una parte determinata della società», ne consegue che la distribuzione della ricchezza e del reddito dipende in un ultima analisi dalla distribuzione della proprietà.
Siamo realisti. C’è qualcuno che pensa di redistribuire sostanziosamente reddito e ricchezza senza toccare il rapporto di proprietà, vale a dire il rapporto di produzione capitalistico nella sua espressione giuridica? Non si farà alcun deciso passo in avanti restando nella sfera distributiva. Per ottenere risultati positivi a vantaggio della collettività è indispensabile intervenire nel processo di accumulazione della ricchezza reale e quindi redistribuire la proprietà, mettendo sotto controllo i detentori del grande capitale e della finanza. Come del resto la nostra Costituzione rende possibile se venissero applicate le norme del Titolo III riguardanti i rapporti economici, che sono sempre state un terreno di lotta e che oggi vengono del tutto ignorate.
Scopriamo una verità piuttosto imbarazzante: la cultura distributiva è rimasta molte spanne indietro rispetto alla cultura della Costituzione, la quale non teme di misurarsi con la questione cruciale della proprietà. E infatti, sul fondamento del lavoro, che da merce diventa inalienabile diritto e quindi ridefinisce sostanzialmente i principi di libertà e di uguaglianza, la nostra Carta del 1948 - la cui potente carica innovativa continua colpevolmente a essere sottovalutata - delinea un progetto di società molto avanzata, da costruire attraverso l’espansione progressiva della democrazia e il protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori sulla via di una civiltà più evoluta e più umana, che potremmo denominare nuovo socialismo.
Teniamo bene a mente l’articolo tre, dove si afferma che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Da cui discende: a) che l’applicazione di questo principio comporta il rovesciamento delle politiche economiche e sociali oggi vigenti in Italia e in Europa; b) che non è sufficiente intervenire nella sfera distributiva se si vogliono effettivamente garantire uguaglianza e libertà a tutti gli italiani, elevando le lavoratrici e i lavoratori al ruolo di classe dirigente.
Esattamente in ragione di ciò, nel Titolo III già menzionato si pone un limite alla proprietà, che, pubblica o privata, deve assolvere a una funzione sociale; si prescrive che comunque le diverse forme di iniziativa economica non devono recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, e pertanto vanno indirizzate a fini sociali; si rende esplicita la possibilità di trasferire a comunità di lavoratori e di utenti imprese che si riferiscano a servizi pubblici o a fonti di energia e a situazioni di monopolio. Sono condizioni che i padri costituenti ritennero indispensabili perché i nuovi diritti, i diritti sociali, possano tradursi in realtà, nella vita reale di ogni persona. Non certo come graziose concessioni di un sovrano o come bonus di un qualsiasi uomo solo a comando, bensì come tessuto connettivo di una società rinnovata.
Premesso che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto» (articolo quattro), mi limito qui a ricordare che la Costituzione garantisce il diritto a una retribuzione paritaria per uomini e donne a parità di condizioni lavorative, proporzionata alla quantità e qualità di lavoro, e comunque sufficiente ad assicurare «un’esistenza libera e dignitosa»; nonché il diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite, alla tutela della salute, all’assistenza e alla pensione, all’istruzione. In poche parole: l’economia al servizio degli esseri umani, e non viceversa.
Sono diritti che nelle condizioni del mondo di oggi hanno valore universale. Come universale è il principio che ripudia la guerra in quanto «strumento di offesa alla libertà di altri popoli e di risoluzione delle controverse internazionali». La straordinaria modernità della nostra Costituzione si riscontra anche nel principio che assegna alla Repubblica - ed è questo un altro principio che trascende la dimensione nazionale - il compito di promuovere lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica, e di tutelare l’ambiente e il patrimonio storico e artistico.
In linea con una visione complessa dell’uguaglianza che non si riduce nell’impianto della Carta alla parità delle condizioni di partenza, Stefano Rodotà ha osservato che oggi «l’accesso alla conoscenza reso possibile da Internet non basta ad affermare in astratto il pari diritto di ciascuno, se poi le condizioni materiali e culturali creano condizioni di disuguaglianza e di esclusione». In altre parole, l’uguaglianza sostanziale che le innovazioni scientifiche e tecnologiche del nostro tempo reclamano a gran voce, e che consentirebbero a tutti e a tutte di vivere lavorando meno e meglio, è esattamente ciò che la Costituzione garantisce agli italiani. I quali, dopo la grande vittoria democratica nel referendum, dovrebbero essere chiamati a lottare per l’applicazione dei principi costituzionali, portandoli in Europa e nel mondo.
Alla domanda del che fare rispondo che questo dovrebbe essere il compito della sinistra, e al tempo stesso il mezzo per costruire una vera sinistra, una sinistra nuova con caratteristiche popolari e di massa: promuovere un vasto e articolato movimento di lotta per l’applicazione della Costituzione con obiettivi concreti, da sviluppare nei territori ma anche a livello nazionale ed europeo. Facendo leva su quell’inestimabile patrimonio di energie e di intelligenze messe in campo senza risparmio nella campagna referendaria da uomini e donne, giovani e anziani, che si sono uniti e mobilitati per un grande obiettivo, al di là delle tessere che avevano o non avevano in tasca. Un patrimonio, e un esempio da mettere a valore.
Intanto, un primo passo potrebbe essere una grande campagna di acculturazione costituzionale da promuovere nelle scuole, nelle fabbriche e in tutti i luoghi di lavoro per diffondere la conoscenza della Costituzione antifascista, la sua cultura della solidarietà, dell’uguaglianza e della libertà, contro la cultura del business, della disuguaglianza e della divisione. A tutti coloro che soffrono per gli effetti distruttivi della crisi la nostra Carta fondamentale offre un orizzonte, una speranza e motivazioni molto concrete per ribellarsi e lottare. A una sinistra nuova, che sul fondamento del lavoro voglia costruire in Italia e in Europa un’alternativa praticabile alla dittatura del capitale, offre una tavola di valori e di diritti su cui definire un programma di interventi a medio e lungo termine.
La Costituzione unisce i lavoratori e il popolo, e chiede un cambiamento radicale: facciamo la sinistra della Costituzione, per l’applicazione della Costituzione.

Articolo scritto per Malacoda, webzine, il 9 aprile 2017

Fonte: paolociofi.it 

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