La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 21 aprile 2016

Lavorare meno per vivere bene?

di Gianfranco Sabattini
Molti sostenitori della teoria della decrescita di Serge Latouche da tempo sono impegnati a scoprire il nuovo paradigma su cui fondare la riorganizzazione della società industriale in crisi; essi, come ad esempio Mauro Gallegati (“Oltre la siepe. L’economia che verrà”) propone un modello organizzativo della nuova società, al cui interno sia possibile porre finalmente un limite alla logica sottostante la crescita quantitativa continua del sistema produttivo; ciò, al fine di consentire di sottrarre l’umanità all’egemonia del vivere all’ombra di un falso parametro, il PIL, che promette la liberazione dal bisogno e il miglioramento qualitativo del modo di vivere solo attraverso un consumo crescente di beni materiali, senza la garanzia che esso, in sé e per sé considerato, possa essere assunto come indice del “vivere bene”.
Il cambio di paradigma è reso necessario, si sostiene, “dalla consapevolezza di trovarci in un mondo finito, in un mondo maltusiano mitigato dalle innovazioni di processo, dove l’umanità interagisce con l’ambiente”. Si potrà proseguire sulla via di un aumento quantitativo continuo del PIL come sinora si è fatto, ma non si potrà farlo indefinitamente, in quanto, prima o poi, a causa della finitezza delle risorse e delle differenti velocità delle innovazioni e della demografia, sarà giocoforza un’inversione di rotta. Occorre perciò ripensare a come vivere, perché “consumare senza pensare alle conseguenze equivale a rubare la speranza a noi tutti e alle future generazioni”.
Uno dei modi proposti per uscire dalla logica perversa della crescita illimitata è rinvenuto nella costruzione di una società alternativa a quella industriale, attraverso l’individuazione delle condizioni utili a consentire di bloccare la crescita del PIL, lavorando meno, ma con soddisfazione crescente. La società alternativa, come quella proposta ad esempio da Gallegati, evoca una forma di società da altri denominata “società civile”, intesa come forma organizzativa alternativa a quella propria della società industriale in crisi. Questo tipo alternativo di organizzazione sociale dovrebbe consentire di “porre un blocco” al tradizionale modello di produzione e di consumo, permettendo che i comparti economici innovativi possano continuare ad espandersi, attraverso l’aumento della loro produttività, in una prospettiva della dinamica del sistema sociale ed economico la cui logica sia informata al principio del “lavorare meno per consentire a tutti di lavorare, sulla base di rimunerazioni salariali inferiori.
E’ impensabile, però, che una società civile siffatta, restando nell’ambito del solo mercato, possa riuscire a dare stabilità al funzionamento delle istituzioni sociali ed economiche, se preventivamente non si dimostra l’esistenza di automatismi idonei a rendere compatibile il perseguimento del miglioramento del livello di un benessere collettivo coniugabile con una produzione ed un consumo ecologicamente sostenibili.
Si sostiene che la compatibilità possa essere assicurata con l’introduzione di un reddito sociale (un reddito minimo garantito o un reddito di cittadinanza) da corrispondere alla forza lavorativa che l’organizzazione della società civile non fosse più in grado di rimunerare a “salario pieno”. Sennonché, la realizzazione di una società alternativa a quella industriale, fondata sulla corresponsione alla forza lavoro di un reddito sociale svincolato, anche parzialmente, dall’”unità funzionale” che deve esistere per uno stabile funzionamento del sistema economico tra accesso al lavoro e accesso a un reddito proporzionale ai servizi conferiti, comporta la necessità dell’attuazione di una politica pubblica che, da un lato, prevenga la crescita della disoccupazione e, dall’altro lato, promuova una diminuzione continua del tempo di lavoro liberato dall’aumento delle produttività, ma a salario pieno, evitando così la riduzione salariale.
Se la riscossione del salario pieno cessasse di essere la principale fonte di reddito, la sua conservazione non dipenderebbe più da un tempo di lavoro prestabilito, a causa della sua continua contrazione, ma dalla sua trasformazione in salario a “doppio titolo”: una parte sarebbe a carico delle imprese come rimunerazione del lavoro fornito a tempo ridotto; la parte residua, crescente nel tempo, sarebbe a carico dello Stato, per compensare la riduzione del salario legata alla riduzione del tempo di lavoro. Questa seconda parte del salario sarebbe finanziata attraverso la tassazione generale che, non gravando sul costo di produzione delle imprese, dovrebbe rendere possibile “lavorare meno per lavorare tutti”; la logica del salario a doppio titolo corrisposto sulla base di misure volte a ridurre l’orario ed i tempi di lavoro, nasconde, però, una contraddizione.
Se tutti lavorassero sempre meno, per effetto dell’aumentata produttività della base produttiva della società alternativa a quella industriale, ciò significherebbe che tutti, oltre a lavorare, vedrebbero aumentare la quantità di tempo libero a disposizione; in altri termini, significherebbe che l’intera forza lavoro all’interno della nuova società civile sarebbe rimunerata, in parte per l’attività lavorativa svolta in relazione alle esigenze funzionali del sistema economico e, in parte, in relazione allo svolgimento di attività “autodeterminate”, del tutto autonome rispetto alle prime. In questo modo, la nuova società, renderebbe possibile, secondo i suoi sostenitori, una condizione in cui tutti potrebbero lavorare per un tempo di lavoro destinato a decrescere, pur continuando ad aumentare il loro livello di benessere, qualitativamente migliorato dall’attività autodeterminata, resa possibile dalla corresponsione, da parte dello Stato, della parte del salario pieno disgiunta da ogni forma contributiva alla formazione del PIL da parte della forza lavoro.
La realizzazione di una siffatta organizzazione della società, fondata sull’istituzionalizzazione della logica del secondo assegno, non porrebbe particolari problemi sul piano macroeconomico; le difficoltà sorgerebbero nel momento stesso in cui tale logica venisse trasposta sul piano microeconomico. Se la riduzione del tempo di lavoro non fosse concepita come misura di una politica pubblica a sostegno del pieno impiego, ma come paradigma fondativo di una società alternativa a quella industriale, la riduzione del tempo di lavoro cesserebbe di essere misura orientata al sostegno dell’occupazione, per divenire ragione del cambiamento della natura stessa della dinamica economica; di una dinamica, cioè, che, pur richiedendo sempre meno lavoro, creerebbe pur sempre maggiore ricchezza.
Sulla base di questa conclusione, la riduzione del tempo di lavoro a livello microeconomico verrebbe a tradursi in una riduzione del monte salari. Ma ciò, dal punto di vista macroeconomico, significherebbe che la società alternativa a quella industriale sarebbe sorretta da una dinamica che, giustificando l’erogazione di salari decrescenti, finirebbe coll’inciampare nell’ostacolo del mancato finanziamento di un consumo uguale all’offerta della produzione complessiva del sistema economico.
La proposta di sostituire la società industriale con una nuova forma di organizzazione sociale fondata sul paradigma della contrazione del tempo di lavoro, per porre un limite alla crescita illimitata della produzione, non sfugge, in conclusione, alla considerazione critica di essere contraddittoria, in considerazione del fatto che, assumere l’ipotesi che una parte del salario pieno della forza lavoro possa essere corrisposta senza che sia condizionata da una sua connessione con l’esercizio di specifiche attività lavorative, rende impossibile sottrarre l’organizzazione complessiva di questa società alternativa alla logica propria di ogni forma di organizzazione sociale fondata sulla centralità della produzione.
L’ipotesi della riduzione del tempo di lavoro non può essere assunta come premessa al blocco in assoluto della crescita, ma come un valido motivo per ridurre le dimensioni dell’economia a un livello di output che possa essere conservato indefinitamente in corrispondenza di uno stato stazionario. Un’economia in stato stazionario, però, pur azzerando l’investimento netto, non esclude il rinnovo degli investimenti; ciò perché anche in essa il funzionamento stabile della base produttiva può essere reso possibile solo con uno stock di risorse umane e naturali mantenuto ai più bassi livelli possibili di consumo di materia e di energia.

Fonte: il manifesto sardo 

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