di Gabriele Proglio
Siamo a un passo dalla guerra. Con l’insediamento di Fayez al Serraj si sono completati i giochi diplomatici, ora potrebbe iniziare la fase militare. Serraj è l’uomo designato dalle Nazioni Unite per dirigere, agli ordini dei padroni europei (e non solo), il Paese nordafricano nel post-conflitto. Non è quindi un caso che il nuovo primo ministro libico sia arrivato via mare. Certo, gli uomini di Kalifa al-Ghwell, l’ex premier del governo di Tripoli, hanno più volte chiuso i confini con la Tunisia e tentato, si dice, di abbattere l’aereo di Serraj – in aiuto sarebbero intervenute la marina italiana, la Gran Bretagna e la Francia: fattore, questo, che indica quanto la guerra sia già in corso, anche se non ancora dichiarata. Serraj è allora dovuto partire da Sfax, nella vicina Tunisia. Questo tipo di mobilità ha anche un forte simbolismo: indica che vi è una palese connessione con l’ONU e, più in generale, con l’altra sponda del Mediterraneo; ma anche una forte resistenza delle eterogenee forze che gravitano intorno al governo di Ghwell.
Non solo, l’altro governo libico, quello di Tobruk, aveva precedentemente dichiarato che avrebbe accettato il nuovo governo solo dopo un voto della camera dei rappresentanti. A sostegno di Serraj, invece, è arrivata la dichiarazione del segretario di Stato Usa John Kerry; quella di Francia e Germania, di Londra; dell’Italia, di Renzi; di Gentiloni, nuovo ministro della guerra, che riprende le posizioni del governo con una dichiarazione sibillina “L’Italia è pronta a rispondere alla richieste del nuovo governo quando e se si sarà consolidato”. Per comprendere cosa significhi questa frase bisogna andare indietro a un mesetto fa, quando Renzi dichiarò: “l’intervento solo su richiesta di Tripoli”. Gentiloni è pronto, cioè, a dare il via all’intervento.
Non solo, l’altro governo libico, quello di Tobruk, aveva precedentemente dichiarato che avrebbe accettato il nuovo governo solo dopo un voto della camera dei rappresentanti. A sostegno di Serraj, invece, è arrivata la dichiarazione del segretario di Stato Usa John Kerry; quella di Francia e Germania, di Londra; dell’Italia, di Renzi; di Gentiloni, nuovo ministro della guerra, che riprende le posizioni del governo con una dichiarazione sibillina “L’Italia è pronta a rispondere alla richieste del nuovo governo quando e se si sarà consolidato”. Per comprendere cosa significhi questa frase bisogna andare indietro a un mesetto fa, quando Renzi dichiarò: “l’intervento solo su richiesta di Tripoli”. Gentiloni è pronto, cioè, a dare il via all’intervento.
Tracciare le mobilità di guerra
Di fatto, ormai da oltre un mese, sono stati fatti piani congiunti per il conflitto tra Roma, Washington, Londra e Parigi - come affermato dal ministro della difesa Pinotti. Sappiamo che i tre paesi alleati dell’Italia hanno già mandato gli eserciti sul campo, per addestrare le truppe locali del governo di Tobruk e a supporto del generale Khalifa Haftar. Intanto, al largo delle coste libiche, ormai da tempo, stazionano una decina di navi della marina italiana, ufficialmente impegnate nelle operazione di salvaguardia dei siti italiani di estrazione del greggio e di canalizzazione del gas: le piattaforme off-shore dell’Eni e gli stabilimenti di Tripoli e Melitha. Anche Tunisi appoggia l’operazione e, qualche tempo fa, ha costruito una barriera anti-islamisti alla frontiera con la Libia. Stesso dicasi per l’Egitto: il confine con la Cirenaica sarà utilizzato per il rifornimento delle armi e per l’invio di eventuali rinforzi decisi dal Cairo.
Dunque, possiamo dire, senza ombra di dubbio, che questa guerra – comunque vada a finire e a prescindere dai giudizi di merito sulla situazione geopolitica - è frutto dell’ingerenza di una coalizione militare, politica ed economica in Libia. È, a tutti gli effetti, lo spostamento di molteplici forze – appunto militari, politiche ed economiche – fuori dai confini nazionali e oltre il reticolo dello spazio globalizzato, all’interno di un’area nazionale specifica. Se dimenticassimo il contesto, e rileggessimo questa ultima frase cercando di darne una collocazione temporale nel secolo scorso (o prima ancora), nessuno avrebbe dubbi a proposito del tema: il colonialismo. Ma oggi questo termine è considerato inappropriato da tanti. Il colonialismo è finito – ci si sente ripetere. Ma i meccanismi che riproducono forme di potere su altri territori - si pensi al land grabbing relativo ai tanti Sud del mondo - e su altri corpi continuano imperterriti a riprodursi. Questo perché col processo di decolonizzazione le ‘democrazie’ occidentali hanno ripulito le loro vesti dalle tracce dei crimini commessi in Africa e Asia; il prezzo della “libertà” accordata ai popoli del Sud è stato, tra le altre cose, l’affrancamento dei paesi europei da quel passato e l’inizio di un’epoca in cui i modelli di disciplinamento dell’altro sono stati convertiti in legge, in dispositivi di selezione dei corpi e di sfruttamento delle risorse. Quella stessa retorica arriva all’oggi, a parlare di una guerra, combattuta sotto il vessillo delle Nazioni Unite, in termini di missione di pace. E anche la questione del nemico non è cosa nuova: il Daesh è solo l’ennesimo nemico utile per combattere guerre di conquista. Tanto più che, a differenza di quanto vanno dicendo fonti governative europee e molti media, la Libia non è invasa o sotto il controllo dal Daesh. Esistono certo fazioni e gruppi armati che si sono dimostrati fedeli al progetto del califfato di al-Baghdadi. Gli immaginari apocalittici mobilitati – del tracollo della civiltà occidentale (si legga capitalistica, cattolica, bianca) – non sono per nulla differenti, in termini di potenza evocativa, da quelli di ogni guerra (coloniale) precedente.
Dunque, sebbene si racconti che si va alla guerra per sconfiggere il Daesh, l’evidenza dei fatti prova che la posta in gioco è ben altra, più alta e forse importante. Quale evidenza? In effetti avrei dovuto usare il plurale, le evidenze. Primo: le risorse energetiche, e l’urgenza, di tutte le compagnie mondiali – stoccatrici di greggio e produttrici di gas – di assicurare una continuità e un contesto politico e sociale adeguato perché gli affari aumentino. Ma ricordiamoci anche che ogni guerra è per i protagonisti di questa partita un nuovo “giro di carte” in cui vale tutto: bluff, alleanze, colpi di mano; in cui, ancora, spesso qualcuno vince e tanti, quasi tutti, perdono. Secondo: riprendere l’idea di un’influenza sul Mediterraneo come spazio economico e politico sotto l’egida europea. Per non rifarsi al processo di Barcellona del 1995, basti ricordare i recenti tentativi di controllo a partire dall’Unione del Mediterraneo di Sarkozy fino alle più recenti missioni di ‘salvataggio’ dei migranti – penso alla trasformazione delle missioni Euronavfor Med in interventi a comando ONU. Inoltre, l’appalto europeo della frontiera orientale dell’Europa alla Turchia ha rimesso in discussione gli equilibri nell’intera zona.
Perciò, alla mobilità simbolica degli immaginari neo-coloniali corrisponde una mobilità dello scacchiere economico, finanziario e politico. Per contro, invece, questa nuova guerra avrà effetti, sempre sul piano della mobilità, di tutt’altro genere. Intanto, è evidente l’urgenza di controllare i flussi migratori attraverso l’imposizione di un confine libico dell’Europa. Frontex, cioè, non basta: è necessario un guardiano che svolga il lavoro sporco un tempo affidato a Gheddafi, calibrando i flussi in base alle richieste del Vecchio Continente. Non è un caso che lo stesso ruolo, in Turchia, sia stato affidato ad Erdogan. Non ci sarà mobilità sociale per i libici – anzi, a migliaia, quando si darà fuoco alle polveri, lasceranno il paese per trasferirsi presumibilmente in altri paesi arabi o, chi ne ha l’opportunità, in Europa e negli Stati Uniti. Ma soprattutto l’esito di questa guerra potrebbe essere di evitare, direttamente o indirettamente, che processi ancora in corso – iniziati nel 2010 – trovino sbocchi diversi dalla terrificante situazione libica, dalla dittatura feroce di al Sisi e dell’asfittica e paralizzata condizione tunisina. Stesso dicasi per l’Europa: una guerra di questo genere può immobilizzare la produzione di soggettività critica, come ricordato sopra. Nulla arriverà, poi, alle periferie dell’impero, se non morte e povertà: chi oggi abita questi luoghi, dalle banlieues europee agli spazi di una cittadinanza negata, pagherà il prezzo più caro, come in ogni guerra. Sarebbe poi stupido, o per lo meno da ingenui, attendersi una redistribuzione sociale del bottino. Dicono che il problema siano le banlieues; non dicono che è la disuguaglianza sociale che genera questi luoghi, che questi spazi sono stati pensati consciamente per essere discariche sociali, e, da ogni discarica, ci si attende due cose: che sia lontano dal centro e che generi costanti guadagni. Non certo che partorisca problemi. Così se la questione Daesh è il risultato di una sommatoria di più piani non coordinati tra di loro: il ruolo degli Stati Uniti nell’area iracheno-siriana; le “ambigue” relazioni dell’Arabia Saudita, del Quatar, degli Emirati Arabi e della Turchia; ma anche l’ingente povertà – e stato costante di segregazione e criminalizzazione – delle periferie da cui partono gli europeissimi foreign fighters, o, ancora, degli attentatori di Parigi e Bruxelles.
Pratiche di liberazione
Come rompere questa complessa architettura di guerra? Ovviamente non sto parlando solo di quella che porterà i militari in Libia, ma a un concetto di guerra più ampio, che non può prescindere dalle logiche con cui si amministra la cosiddetta pace. Leggendo quest’ultima nella prospettiva delle mobilità citate sopra, comprenderemo bene che i confini tra guerra e pace sono davvero molto labili. Guardiamo ancora a questi spostamenti dell’Europa fuori dai suoi confini per comprendere meglio questo discorso. Si pensi all’amministrazione del Mediterraneo da parte della Fortezza Europa negli ultimi quindici-venti anni; alle banlieues e alle periferie, alle forme di cittadinanza, a cosa significhi essere rifugiato o richiedente asilo in Europa; si pensi, ancora, all’ingente peso, nella definizione delle economie africane e asiatiche, del land-grabbing. Guerra e pace non sono in opposizione, ma fanno parte, invece, dello stesso discorso.
Per tale motivo è necessario reinventare il presente partendo dalle piazze, certamente, ma anche, e direi soprattutto, dalle università. Questo perché esse sono luoghi in cui si costruisce il presente, tracciando la fisionomia della società contemporanea. Se gli insegnamenti e la ricerca sono il materiale cognitivo indispensabile per l’architettura di guerra, allora sarà necessario, in quelle aule, produrre altro sapere, ma anche confrontarsi, e pure scontrarsi, con quel tipo di realtà. Non stupiamoci, poi, se verrà sbandierata la libertà di pensiero, di parola per difendere i guerrafondai, i teorici della conquista a tutti i costi o gli apologeti dello scontro finale contro il male musulmano. Contestare questi personaggi è il primo passo per riprendere a costruire un presente a partire dal basso.
Va poi problematizzata, all’interno del possibile dibattito, la netta distanza tra il sogno capitalistico – e le sue immagini nel presente – e l’inasprirsi della povertà in Europa e altrove, con sempre più ampie fette di popolazione in condizioni indigenti; tra il regno del diritto – che genera discriminazioni e divisioni a forma di legge – e le ricadute di intere fette di popolazione mondiale a cui non è permessa (o per lo meno è impedita) alcuna mobilità. Quali sono, poi, le eredità coloniali nella guerra di saccheggio della Libia ed come è possibile tracciare le forme di egemonia espresse dall’Europa sull’altra sponda del Mediterraneo. La guerra è solo l’altro nome con cui si fa chiamare la pace, quando si arma per uccidere. Dunque, il ‘no alla guerra’ non basta: la scelta non sta tra guerra o pace, ma nella liberazione, nel ripensare dal basso la comunità, nell’agire il conflitto e nell’essere proposta.
Fonte: commonware.org
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