La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 5 aprile 2016

Trump e l’intellighentia liberale: un punto di vista dall’Europa

di Jean Bricmont
Un nuovo spettro perseguita le élite americane: la candidature di Donald Trump nell’elezione presidenziale degli Stati Uniti e il successo avuto finora nelle primarie Repubblicane. L’establishment repubblicano stesso spera di bloccare la sua ascesa, anche se Trump sta attirando enormi folle nel partito. In quanto ai Democratici, sperano che la sua immagine ripugnante renderà molto più facile l’elezione di Hillary Clinton.
Cominciamo ammettendo ciò che sembra ovvio: Trump è volgare, ingiurioso, demagogico. Dice una cosa e poi il contrario e mostra chiari segni di megalomania.
Detto questo, la campagna anti-Trump è tipica della retorica della classe politica dominante.
Le nostre élite ricorrono a uno dei loro preferiti riflessi condizionati : gli avvertimenti contro il “fascismo” e ancora un altro “nuovo Hitler”. Da quando Nasser era “Hitler sul Nilo”, quando nazionalizzò il Canale di Suez, spuntano “nuovi Hitler” nell’immaginazione occidentale come funghi nei boschi d’autunno: Milosevic, Le Pen, Putin, Gheddafi, Saddam Hussein, Assad sono stati tutti soggetti a paragoni del genere.
Di fatto, però, un Presidente degli stati Uniti non è un dittatore e non c’è nessun movimento insurrezionale che appoggia Trump. Se Trump dovesse seriamente attaccare i diritti o i privilegi delle élite, sarebbe rapidamente rimesso al suo posto. Dopo tutto, Richard Nixon aveva ottenuto una schiacciante vittoria nelle elezioni presidenziali del 1972, quando fu costretto a dimettersi, non per aver bombardato brutalmente i popoli dell’Indocina, ma per essere stato implicato nel tentativo di spionaggio del quartier generale del Partito Democratico (Watergate).
In realtà, se Trump tentasse seriamente di applicare le sue misure estremiste contro l’immigrazione illegale, per non parlare degli aspetti protezionisti del suo programma, si troverebbe di fronte tutto il potere delle imprese multinazionali, la maggior parte dei media e del Congresso. Se tentasse di essere realmente neutrale nel conflitto tra Israele e Palestina, come ha talvolta sostenuto, la lobby pro-Israele non perderebbe tempo a fargli sapere che le cose non funzionano in quel modo negli Stati Uniti.
Il candidato Democratico Bernie Sanders, che è anch’egli un outsider, ha almeno avvertito i suoi elettori che non poteva riuscire come presidente senza avere alle spalle un movimento popolare (il che è la verità). La stessa cosa vale, però, per Trump, tranne che Trump si presenta come il leader provvidenziale che può gestire tutto da solo. Il vero rischio di una presidenza di Trump non è la “minaccia fascista”, ma la probabilità che non faccia nulla di quello che ha promesso ai suoi elettori ma che invece persegua le politiche standard con più vigore.
Un altro aspetto divertente delle campagne della rispettabile sinistra antri-Trump, è di presentarlo come scandalosamente unico e inaccettabile a causa del suo “razzismo”. Ma che cosa è il razzismo, dopo tutto? Un brutto atteggiamento verso le persone che sono diverse? Trump parla follemente di escludere certe categorie di persone dagli Stati Uniti sulla base di chi sono, ma per decenni rispettabili leader statunitensi hanno continuato a escludere milioni di persone che non “sono come noi” dalla vita stessa. Come potrebbe una presidenza Trump essere peggiore della Guerra del Vietnam, del bombardamento della Cambogia e del Laos, di tutte le guerre in Medio Oriente, del sostegno dato all’apartheid in Sudafrica, o ai massacri di Suharto in Indonesia, o a Israele in ognuna delle sue guerre? Come potrebbe essere peggiore dei massacri in America Centrale o del ribaltamento dei governi in America Latina o in Iran? O peggiore degli embarghi che hanno provocato avversità e stenti ai popoli di Cuba, dell’Iran, dell’Iraq e anche delle corse agli armamenti imposte a paesi obbligati a cercare di difendersi dalle ostilità e dalle minacce degli Stati Uniti?
Gli intellettuali liberali americani che sono sconvolti da Trump si dimenticano rapidamente che cosa il nostro paese ha inflitto al “ROW” (Rest of the World ), il resto del mondo dove va bene uccidere masse di persone non per “razzismo”, oh, no, non è una bella cosa – ma ucciderli perché hanno leader cattivi, brutte idee o anche – così si dice – perché hanno bisogno di essere protetti.
Come ha chiesto il commentatore John Walsh – che cosa è peggio: denigrare le persone per la loro razza o religione, o ucciderli a centinaia di migliaia? Chi tra gli intellettuali liberali denuncerà come razzista la politica di Hillary Clinton? Ma può qualcuno credere per un secondo che la Clinton avrebbe appoggiato la devastazione dell’Iraq, della Libia e di Gaza o che la sua amica Madeleine Albright avrebbe considerato che “valeva la pena” uccidere di 500.000 bambini in Iraq, se una o l’altra di loro considerava quelle politiche realmente umane?
Però dato che viviamo in una cultura dove le parole sono più importanti dei fatti, e che la Clinton è perfettamente politicamente corretta nel suo modo di parlare, il suo razzismo è invisibile. Naturalmente, quello che alla fine è importante non è sapere se tutte quelle persone sono state uccise a causa del “razzismo”, ma il fatto che sono state uccise durante guerre evitabili e non di difesa fatte dagli Stati Uniti.
Si potrebbe replicare che proprio a causa di questo “razzismo”, Trump sarebbe anche peggiore. Ma non c’è segno di questo. E’ il primo importante personaggio politico che chiede “l’America per Prima”, intendendo il non-interventismo. Non solo denuncia i trilioni di dollari spesi nelle guerre, disapprova anche i soldati americani morti e feriti, ma parla anche delle vittime irachene di una guerra iniziata da un presidente repubblicano. Fa così per un pubblico repubblicano e riesce a ottenere il suo appoggio. Denuncia le basi militari dell’impero degli Stati Uniti, dichiarando di preferire di costruire scuole qui negli Stati Uniti. Vuole buoni rapporti con la Russia. Osserva che le politiche militariste perseguite per decenni hanno fatto sì che gli Stati Uniti fossero odiati in tutto il mondo. Definisce Sarkozy un criminale che dovrebbe essere giudicato per il suo ruolo in Libia. Un altro vantaggio di Trump: è detestato dai neoconservatori che sono i principali architetti dell’attuale disastro.
Anche se Trump è lungi dall’essere un pacifista (cosa impossibile tra i Repubblicani), la sinistra si è fatta prendere così tanto dalle illusioni dell’imperialismo umanitario, che il programma di Trump alla fine sembra il più progressista sulla scena politica da lungo tempo. (Neanche Bernie Sanders ha denunciato la politica di intervento in maniera così netta).
Alla luce dei punti di vista non convenzionali sulla politica estera, è un po’ troppo facile attribuire tutto il suo successo all’ipotetico razzismo dei suoi sostenitori. Come spiega Thomas Frank, se milioni di americani appoggiano Trump, il motivo è che vedono in lui la personificazione della loro propria rivolta contro l’establishment, di destra e di sinistra, nella loro perfetta divisione del lavoro. La destra vuole assicurare l’accesso ai mercati, dato che il suo ramo neoconservatore promuove guerre senza fine contro ipotetiche minacce, mentre la sinistra fornisce come pretesto argomenti per i “diritti umani”.
Il problema del protezionismo e del libero scambio, è complicato, ma non si può negare che abbia un aspetto di classe. Per le persone con redditi stabili può essere vantaggioso importare merci prodotte in paesi dove ci sono salari bassi o usare servizi forniti dai lavoratori che provengono quei paesi. Però, per coloro che produrrebbero quei beni o che fornirebbero quei servizi, quella concorrenza è un problema ed essi sono non possono che reagire favorevolmente ai discorsi di Trump a favore del protezionismo e della limitazione dell’immigrazione.
La sinistra intellettuale che per lo più gode di redditi stabili, per esempio nelle università, ha totalmente ignorato questo problema guardandolo unicamente in termini morali: non sarebbe meraviglioso vivere in un mondo aperto agli altri, senza razzismo o discriminazione? In breve, il messaggio al lavoratore bianco che ha perduto il suo lavoro come conseguenza delle delocalizzazioni, senza nessuna migliore prospettiva che consegnare le pizze, è che dovrebbe essere contentissimo di vivere in un mondo multiculturale dove si può mangiare il sushi, ascoltare musica africana e fare le vacanze in Marocco. Gli viene detto che non deve assolutamente fare alcun commento razzista, sessista, omofobico, che il matrimonio tra gay è un enorme progresso e che la società ideale non è una società che mira a condizioni relativamente uguali per tutti, ma, piuttosto una società con “pari opportunità” in cui non c’è un limite alle disuguaglianze economiche fino a quando non sono conseguenza di discriminazioni contro le minoranze. Tutto va bene se si può trovare un buon numero di donne, neri e omosessuali tra i miliardari.
Questo è essenzialmente il modo di pensare che ha dominato la sinistra per decenni. La classe operaia è stata totalmente dimenticata, soprattutto la classe operaia bianca che, come Chomsky ha sottolineato di recente, è la grande perdente in tutta questa meravigliosa globalizzazione, tanto più che la sua aspettativa di vita è iniziata a diminuire, più che per qualsiasi altro gruppo negli Stati Uniti. Una volta che la sinistra abbandona una relativa uguaglianza di condizione come suo obiettivo, a favore di uguali opportunità, gioca anche la carta dell’identità politica, concentrandosi soprattutto su quello che ci rende diversi l’uno dall’altro. Mettendo in evidenza le minoranze, dimostrando interesse per qualsiasi cosa si supponga essere diversa o marginale, gli intellettuali economicamente privilegiati non si rendono conto dell’aspetto di classe di questo discorso, in cui il cattivo è inevitabilmente la persona comune che deve essere razzista, nazionalista, radicato nella sua mentalità ristretta.
Il disprezzo implicito espresso per la maggioranza cristiana bianca, presumibilmente eternamente privilegiata grazie alla casualità della nascita, in un periodo in cui essa è di fatto in totale scompiglio, in crisi economica e morale era destinato a produrre una reazione. La campagna di Trump può in parte essere considerata una reazione della “identità bianca” all’identità politica, che provoca urla di indignazione da parte della sinistra benpensante. Il problema era di iniziare a giocare alla politica di identità.
Per molti aspetti, il successo della campagna di Sanders, anche se più debole tra i Democratici rispetto a quella di Trump tra i Repubblicani, esprime anche la rivolta delle masse contro le élite, ma senza l’aspetto “reazione dell’identità bianca” (essa resta totalmente politicamente scorretta a sinistra) e tendenze isolazioniste meno accentuate, dato che mentre Sanders sottolinea la necessità di ricostruire l’America, in passato ha dimostrato poca propensione per l’idea di intervento umanitario.
Infine, dobbiamo chiederci che cosa significa la campagna di Trump per noi, i vassalli, i cittadini europei dell’Impero privati del diritto di votare negli Stati Uniti. Prima di tutto, quella rivolta popolare in un paese che si suppone essere l’avanguardia di tutto quello che è per il meglio, e che la nostra “costruzione europea” si sforza di imitare mentre segue la sua guida, è un problema per le nostre élite. L’elezione di Jeremy Corbyn a capo del Partito Laburista britannico, e anche la nascita di vari partiti etichettati di “estrema destra” nell’Europa continentale, sono in un certo modo analoghi ai fenomeni di Sanders e Trump negli Stati Uniti. Anche qui, il consenso della classe governante a favore della massima apertura dei mercati e anche delle politiche di confronto con il resto del mondo in nome dei diritti umani sta iniziando a crollare.
Mentre le cose vanno di male in peggio, la nostra classe politica si aggrappa a una sola cosa, a una sola speranza di salvezza: Hillary Clinton. Sembra ancora probabile che la mobilitazione dei mass media, delle grosse multinazionali, della grande maggioranza degli intellettuali, degli artisti, degli attivisti per i diritti umani e delle Chiese, riusciranno a sconfiggere Sanders e, con il suo aiuto, a sconfiggere Trump in novembre. Avremo allora altri quattro o forse otto anni di militarismo, di minacce di guerra e delle guerra stessa, mentre la nostra cosiddetta sinistra celebra la nuova vittoria della democrazia, del femminismo e dell’anti-razzismo.
Lo scontento popolare continuerà però a crescere. Coloro che temono di vederlo culminare nell’ascesa di qualcuno peggiore di Trump, non dovrebbe contare sulla “Regina del Caos”, ma piuttosto partire dal movimento di Sanders per costruire un’alternativa più radicale.

Tradotto dal francese da Diana Johnstone.
Una versione francese di questo articolo è apparsa su RT:
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Originale: Counterpunch
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0

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