di Roberto Romano
La crisi intervenuta nel 2007 lascia un vuoto di progetto senza precedenti. Un po’ tutti hanno sottolineato la profondità e la lunghezza senza eguali dell’attuale recessione, ma il lascito è, probabilmente, più pesante di quanto non si pensi. Sebbene l’economia studia il che cosa, il come e per chi produrre, fin dai tempi dei classici, da troppo tempo si è persa la dimensione sociale. L’economia è sempre stata una scienza sociale. Gli economisti classici erano filosofi e portatori di «sentimenti morali». Pensando alle istituzioni del capitale e allo sviluppo delle stesse, la cosa più importante non era solo la loro istituzione. Le istituzioni del capitale prefiguravano delle scelte sociali, unitamente ad una ambizione di «governo» della stessa società nel suo insieme.
Il dialogo tra filosofi, sociologi, matematici e letterati hanno plasmato la società e le consuetudini. Il diritto positivo non poteva essere dissociato dallo sviluppo; lo sviluppo non poteva essere dissociato dal diritto positivo. I liberali, pur nei loro limiti, avevano consapevolezza di questo binomio. Sono indimenticabili le «lezioni del ’44» e i diritti presi sul serio di Einaudi. Sono altrettanto importanti i contributi di alcuni economisti.
Lo sviluppo e la crescita non erano una sequenza più o meno regolare e sempre uguale a se stessa. Lo sviluppo senza il tempo e il cambiamento delle consuetudini della società era inconcepibile. La così detta lotta di classe o divisione internazionale del lavoro non sono un pranzo di gala. Nessuno lo pensa, ma un pavimento e un soffitto erano e sono necessari. Infatti, tutti hanno lavorato alla costruzione di un pavimento e un soffitto: sindacati, partiti, associazioni imprenditoriali, Stati e organizzazioni internazionali.
Anche le persone perbene si sentivano coinvolte in questo progetto. Nessuno poteva travalicare questi confini e questi erano riconosciuti da tutti. Avevamo allo stesso tempo istituzioni del capitale formali e informali. Chi si occupava di diritto era legato allo sviluppo; chi si occupava di sviluppo era legato al diritto. La società era inconcepibile senza questa relazione. I progetti politici, fossero sindacali e di altre associazioni, erano il frutto di un dialogo serrato tra diverse «specializzazioni», sempre che si possa parlare di specializzazioni.
Diritto e sviluppo, così come sviluppo e diritto, devono camminare assieme. Nasce prima l’uovo o la gallina? La domanda non dovrebbe nemmeno essere formulata. Se proprio dobbiamo dare una risposta, non esiste l’uovo senza la gallina e viceversa. Ci appassioniamo dei diritti; in ordine di tempo troviamo la proposta della carta dei diritti della Cgil.
Chi ha letto l’illustrazione della carta comprende perché il diritto è per definizione diseguale nella misura in cui si vuole ripristinare un punto di partenza uguale per tutti. Se due persone sono diverse, la legge non è neutrale, salvo che per il diritto naturale e, forse, nemmeno all’interno del diritto naturale vale questo principio.
Chi ha letto il Piano del Lavoro della Cgil e la sua prosecuzione con il Libro Rosso, comprende la biunivocità tra crescita e diritti.
L’aspetto un po’ inedito è la separazione tra i due progetti. Non per chi ha concorso alla realizzazione del Libro Bianco per il Lavoro, ma la sensazione è quella di un processo che distingue tra diritto e sviluppo.
Se non maturiamo un progetto di cambiamento capace di cambiare il motore della macchina senza fermarla e, contestualmente, un progetto di diritti di nuova generazione che si aggiungano a quelli di prima-seconda-terza generazione, lo sviluppo e il diritto perdono assieme.
Fonte: il manifesto
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