La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 14 maggio 2016

La “Rivoluzione” interrotta

di Fiorenzo Angoscini
Non si sono ancora del tutto spenti gli echi della festa d’aprile del 1945 che numerosi proletari, semplici combattenti – tra cui comandanti di brigata e commissari politici – per convinzione e non per convenienza, intuiscono ciò che si sta programmando, annusano l’aria, colgono l’atmosfera: è solo un cambio d’abito. Chi tira le fila, e continua a condurre le danze, sono i soliti profittatori di sempre. Presidente del consiglio è Alcide De Gasperi (ministro della malavita, secondo un efficace e tagliente slogan comunista) che si sforza in tutti i modi di essere accettato e ben visto dai pronipoti dello zio Sam, i quali, tramite “addetti militari”, “consiglieri politici” e “funzionari diplomatici”, stanno cercando di incastrare tutti i pezzi necessari per garantire la loro democrazia e soggettiva stabilità alla giovane repubblica italiana.1
Così, nemmeno troppo dietro le quinte, insieme a vecchi arnesi, generali felloni e voltagabbana si armeggia e trama nei retrobottega e anticamere dei palazzi della politica istituzionale. Il personale dell’amministrazione statale proviene ancora, per la stragrande maggioranza (vicina al 100%) dalle strutture del passato regime: prefetti, questori, magistrati, ispettori di PS, capitani dei carabinieri ai posti di comando, hanno tutti vestito la camicia nera. Per non parlare degli operatori finanziari, quelli che allargano, o stringono, i cordoni della borsa, i presidenti dei vari enti statali, gli insegnanti di tutti i gradi e livelli.
In aggiunta, nei primi giorni del 1946, i pochi partigiani arruolati nella polizia ausiliaria, vengono allontanati. Il corpo viene epurato dagli elementi non affidabili. E’ troppo pericoloso che ex combattenti per la libertà detengano legalmente delle armi. Essendo poliziotti, sono armati.
La classica goccia che fa traboccare il vaso delle promesse non mantenute, è la legge emanata dal segretario nazionale del Partito Comunista Italiano, il Ministro della Giustizia, guardasigilli Palmiro Togliatti. Il 22 giugno 1946 entra in vigore il dispositivo per cui, in sostanza, si liberano i fascisti e si arrestano i partigiani responsabili di reati “comuni” o crimini “efferati” (eliminazione di gerarchi e simili) negli ultimi mesi della guerra di liberazione nazionale. Ma che è stata anche guerra civile e guerra di classe. Partendo da queste realtà prende corpo e si sviluppa il racconto di Pino Tripodi.
Manipoli di presunti vincitori, potenziali sconfitti ma non arresi, decidono di incidere profondamente sull’andamento delle cose. Vogliono cambiare il corso delle storie. In molte province, soprattutto del centro-nord Italia si riorganizzano, rispolverano le armi, ricostituiscono le Brigate, tornano in montagna.
Le agitazioni insurrezionaliste partigiane si registrano nelle province di Brescia, Sondrio, Mantova, Vercelli, Pavia,2 Lucca, Parma, Massa, Savona, Reggio Emilia, Pistoia, Verona, La Spezia,3 Vicenza, Firenze, Udine, Genova, Asti, Alessandria, Cuneo.
Proprio di quella che è diventata il simbolo (anche se poco conosciuta e studiata) e “capitale” delle rivolte partigiane dell’estate 1946, l’insurrezione di Santa Libera (20 agosto),4 località collinare del comune di Santo Stefano Belbo, provincia di Cuneo, paese natale del letterato-poeta-comunista Cesare Pavese, ci racconta, in forma romanzesca, l’autore di Per sempre partigiano.
Grazie ad un lascito manoscritto, una sorta di autobiografia postuma consegnata ad un prete “illuminato” e progressista, che a sua volta la regala a Tripodi, uno dei protagonisti, Giovanni Primo Rocca, nato proprio – strani incroci del destino – il 21 gennaio 1921,5 capo – insieme ad Armando Valpreda 6, anch’egli reduce partigiano e, all’epoca dei fatti, presidente provinciale dell’Anpi di Asti – della rivolta, mescolando infanzia-adolescenza-giovinezza-amore-lotta-delusione-abbandono, dipana la storia di una sessantina di uomini che tornano in quella “casa sulla collina” dove, fino a pochi mesi prima, inquadrati nella Brigata Garibaldi Stella Rossa, avevano combattuto contro gli occupanti nazisti e i loro servi in camicia nera.
Rivendicano il diritto ad una vita di affetti, giustizia e riscatto sociale. Pretendono dignità umana e politica, chiedono ciò che era stato loro promesso, ma che non hanno ottenuto.
Tripodi-Rocca, in una sorta di duetto da ventriloquo, ricordano: “…sei un nero che frequenta le scuole dei bianchi. Glielo devi far capire che loro hanno i soldi mentre tu sei intelligente…”; accusano: “…i partigiani mi sono amorevolmente antipatici…mio padre è un partigiano. Mio padre è uno stronzo dunque tutti i partigiani sono stronzi…così per inerzia inizio a vedere in ogni partigiano un rompiballe presuntuoso”; si contraddicono: “…dicono che mi piace vincere però non sopporto le responsabilità della vittoria…” ; rimpiangono, inteso come rammarico: “…ai partigiani privi di santi in paradiso tocca la sorte dell’emarginazione della disoccupazione…” ; perché sono “persone storte”. Nel senso di diversi, non omologati, divergenti e distinti.
Nel loro narrare ci sono anche affermazioni forti che possono offendere o stupire. Ad esempio nel dichiarare, riferendosi alla nefasta e famigerata amnistia comunemente abbinata al nome di Togliatti, che: “…neanche andasse Hitler al governo potrebbe concepire un provvedimento simile…” . Oppure ancora: “…appendere Mussolini morto a testa in giù è il gesto meglio copiato dai nazifascisti…non è la nostra vendetta per i martiri di Piazzale Loreto massacrati dai fascisti. E’ la vendetta di Mussolini. Il ghigno di un assassino che può dire al mondo intero voi che vi liberate di me siete di me peggiori” . Il massimo dell’equiparazione repubblichini-partigiani. Anzi…criticano duramente la cultura antifascista: “…si dicono combattenti per la libertà ma hanno la cultura reazionaria introiettata anche nei calli…” Fino a sostenere: “…le spie…ci sono già a Santa Libera. Hanno in tasca le nostre stesse tessere di partito”. Per arrivare alle ultime “confessioni”, le più incredibili, le più amare, le più dolorose per un partigiano. “Primo Comandante sempre”, quasi come un pugile suonato, afferma: “…ogni qual volta c’è un peto di discontinuità nell’aria…qualcuno mi chiede di riprendere la vita attiva di partecipare a storie che chiamano in modo assai poco originale di nuova resistenza. Succede dopo l’attentato a Togliatti all’indomani del governo Scelba e tante altre volte. Chiunque senta il prurito di riprendere la lotta di ricominciare a combattere di imbracciare le armi viene da me. Lo ascolto con pazienza e lo licenzio con cortesia. Non sono cose per me…L’unica tentazione di tornare a vivere nella vita vera l’ho all’indomani del sessantotto ma dura appena un attimo…I compagni mi avvertono ti stai allontanando da noi”. (Per tutto il virgolettato: nessuna punteggiatura come nel testo, ndr).
Fa male, ferisce più di una manganellata, di una purga all’olio di ricino, di una seduta di torture in una delle tante “ville tristi” allestite dai nazifascisti in molte città della penisola, di un rastrellamento di civili, di una fucilazione di anziani, donne e bambini, sentire il ‘Comandante Sempre’, Giovanni Primo Rocca, pronunciare queste frasi. Un partigiano che decide di non esserlo mai più, per sempre. Altri, fortunatamente, come forse l’ultimo degli ancora in attività e in vita di quella bell’estate, Giovanni Reuccio Gerbi, continuano la lotta: senza tregua!7
L’epilogo, con la smobilitazione, dell’insurrezione di Santa Libera avviene il 27 agosto.
Con la sua ‘fine’ si esauriscono anche le altre agitazioni partigiane dell’agosto 1946. La ‘sordina’ a quel moto di rivolta si realizza per l’intervento di normalizzazione attuato dal dirigente comunista piemontese Celeste Negarville e, purtroppo, del prestigioso comandante partigiano della Val Sesia Cino Moscatelli.8 Tacitati i ribelli della collina piemontese, come detto, anche tutti gli altri insorti “rientrano”.9
Per i cosiddetti paladini della libertà, il pericolo è scampato, per gli illusi-sognatori di un futuro diverso, l’appuntamento è rimandato. Ma, nemmeno l’attentato a Togliatti, l’eccidio delle Fonderie Riunite di Modena, gli assassinii di Reggio Emilia, Licata (Ag), Palermo e Catania del luglio ’60, le stragi di Milano, Brescia, Italicus e stazione di Bologna riusciranno a smuovere i vecchi e nuovi partigiani, a mobilitarli ed organizzare il definitivo e finale assalto al cielo.
A conclusione di queste considerazioni, alcune note che non sono, e non vogliono essere, osservazioni negative, né critiche trancianti, sullo stile ortografico e letterario con cui l’autore ha scelto di raccontare la confessione umana e politica di Giovanni Rocca. Perché, come alcuni sostengono: “…chi sceglie di scrivere senza punteggiatura deve possedere una grande sicurezza, cioè deve conoscere a fondo le regole e far uso delle parole in maniera tale da “costringere” chi legge a far pausa laddove, per consuetudine, ci sarebbe voluto un segno”.
Ma, si può soggiungere, si obbliga chi legge ad affrontare una lettura diversa, a compiere uno sforzo interpretativo nuovo, non sempre facile e di immediata realizzazione.
Soprattutto, magari, per chi ha frequentazioni abituali – senza scomodare i classici della letteratura – con contemporanei come Cesare Pavese che ci mette in guardia dagli intellettuali di prima e seconda mano: “Per fidarsi di quelli che studiano, bisogna studiare…si dovrebbe studiare per sapere fare a meno di quelli che studiano. Per non farsi fregare da loro”.
Oppure con Luis Sepulveda, “guerrigliero della parola”, l’internazionalista del racconto, l’apologeta del paradiso, “ma non quello dei preti, il nostro, quello in cui si fuma e si beve rum e se chiedi ad una ragazza di ballare, non ti dice mai di no” e delle “donne della mia generazione che scrissero la parola Companera su tutte le schiene e sui muri di tutte le carceri”.
Dell’erotico e anticonformista Boris Vian di “Sputerò sulle vostre tombe”.
Dell’ asciutto, sintetico e preciso Italo Calvino.
Dell’ operaio di Porto Marghera, Ferruccio Brugnaro, di Sono sempre stato da una parte sola, “…con i minatori, con i contadini, con gli operai turnisti”.
Il Pablo Neruda di Farwell, la poesia più amata da Ernesto Guevara de la Serna; di Sante Notarnicola, il bandito della poetica di La nostalgia e la memoria; di Julius Fucik e Papà Cervi..
Di Nazim Hikmet, il ‘turco’ Comunista romantico di “…so che ancora non è finito / il banchetto della miseria…/ ma finirà…” e Mahmoud Darwisch, fedayn della poesia e di “Scrivi: sono arabo…vengo da un villaggio perduto, dimenticato / dalle strade senza nome / e tutti gli uomini al campo come alla cava / amano il Comunismo”.
Questi sono alcuni esempi, non tutti.
Per concludere davvero, scomodando il filosofo di Treviri, è necessario scrivere con semplicità, precisione, chiarezza perché ci si rivolge a dei lettori che “presuppongo naturalmente vogliano imparare qualcosa di nuovo e che quindi vogliano anche pensare da sé”.

Alcune indicazioni di carattere bibliografico per approfondire gli avvenimenti dell’estate 1946:

Oltre alla già citata tesi di laurea di Alice Diacono, L’insurrezione partigiana di Santa Libera (agosto 1946) e il difficile passaggio dal fascismo alla democrazia, anno accademico 2009-2010;

Giovanni Rocca (Primo), Un esercito di straccioni al servizio della libertà, Art pro Arte, Canelli (Cn), 1984

Nazario Sauro Onofri, Il triangolo rosso (1943-1947), Sapere 2000, Roma, aprile 1994;

Laurana Lajolo, I ribelli di Santa Libera. Storia di un’insurrezione partigiana. Agosto 1946, Edizioni Gruppo Abele, Torino, marzo 1995;

Giovanni Gerbi, I giorni di Santa Libera, otto puntate su “L’eco del lunedì”, settimanale di Asti, ottobre-novembre 1995;

Marco Rossi, Ribelli senza congedo. Rivolte partigiane dopo la Liberazione. 1945-1947, Edizioni Zero in condotta, Milano, 2009;

Claudia Piermarini, I soldati del popolo. Arditi, partigiani e ribelli: dalle occupazioni del biennio 1919-20 alle gesta della Volante Rossa, storia eretica delle rivoluzioni mancate in Italia, Red Star Press, Roma, giugno 2013

Fonte: Carmilla online 

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