di Emanuele Giordana
Il baracchino lungo la strada apre alle sei del mattino. La gente passa per le frittelle e un tè nero o col latte. Ma è una piccola delusione il primo sorso del prodotto che, con la bellezza della sue coste, ha reso nota la Lacrima dell’Oceano indiano. Il tè che si beve a Sri Lanka è solo una cattiva imitazione di quello che, con un ampio gesto del braccio, viene miscelato al latte da una tazza all’altra nei cay shop indiani da Peshawar a Calcutta. È scadente persino a Kandy, la capitale del tè, una cittadina di 100mila abitanti arrampicata su colline di un verde intenso e affacciata su un lago. Ci si arriva in treno o con qualche autobus mal in arnese dove la costante di ogni fermata è la tazza di oro nero.
Sì, perché Candy è famosa per due cose: un dente del Budda, conservato con religiosa attenzione in un enorme palazzo sul lago, e il tè. Un tempo era anche un buen retiro, prima che il turismo di massa, impennatosi dopo la fine della guerra civile nel 2009, portasse orde di viaggiatori e il relativo lavorio di ruspe e betoniere.
Sì, perché Candy è famosa per due cose: un dente del Budda, conservato con religiosa attenzione in un enorme palazzo sul lago, e il tè. Un tempo era anche un buen retiro, prima che il turismo di massa, impennatosi dopo la fine della guerra civile nel 2009, portasse orde di viaggiatori e il relativo lavorio di ruspe e betoniere.
Oggi, un albergo con vista lago – nella parte alta della città – è un hotel con vista albergo: uno davanti all’altro con una gara a quale sarà più alto.
Se la città ha perso un po’ della sua magia, come per altro accade ad altri luoghi del sogno cartolina del subcontinente – da Goa a Kovalam Beach per citare i più noti – i dintorni riscattano la fama di una città che da antica capitale del paese è diventata la capitale del tè del pianeta. Benché si possa comprare nel caotico bazar della città, un piccolo edificio a due piani compresso da negozietti che vendono spezie e tè a prezzi esorbitanti, vale la pena di andare a cercarlo nelle colline dove nel 1867 il britannico James Taylor impiantò la prima piantagione. E gli disse bene.
Oggi si coltiva su quasi 200mila ettari: la qualità per l’estero è famosa e Sri Lanka è tra i primi produttori ed esportatori del pianeta. Circa un milione di persone lavorano nell’industria del tè, un capitolo torbido della sua Storia passata e recente. Non è difficile accorgersene passeggiando in collina dove è facile incontrare chi il tè lo raccoglie, soprattutto donne e quasi tutte tamil che la gente come Taylor «importò» dall’India per creare una colonia di coltivatori estranea alla popolazione locale, singalese e riluttante.
Gli abiti sono sfilacciati ma eleganti. E il sorriso di queste signore di raffinata bellezza è incoraggiante ma spesso manca una fila di denti. Oggi non sono più le schiave che furono ai tempi di Taylor e un trattato ha riportato in India molte famiglie. Ma altre non se ne son volute andare. Semmai restare – finalmente con un documento di identità riconosciuto da Colombo – come cittadini srilankesi che ormai avevano qui le proprie radici.
Con salari minimi e nella scala più bassa della forza lavoro locale, le donne del tè (quasi l’80% del settore) vivono coi famigliari in baracche allineate con abitazioni di una o due stanze. Ma c’è chi è riuscito a comprare casa o un pezzo di terra. Sorridono ma non parlano volentieri. Fino a un anno fa Sri Lanka era uno Stato di polizia.
I giornalisti non erano benvenuti per via della guerra con le Tigri tamil del Nord. Men che meno i sindacalisti. Le cose stanno lentamente cambiando e forse stanno migliorando, da quando il nuovo presidente Maithripala Sirisena ha scalzato Mahinda Rajapaksa, signore e padrone del paese, vincitore della guerra civile, assertore di una vulgata nazional-buddistico-singalese e amico dei cinesi.
Perse le elezioni del gennaio dell’anno scorso, aveva tentato un colpo di Stato ma Delhi e Washington si misero di mezzo sostenendo Sirisena che, appena seduto sullo scranno più alto, ha disdetto tutti i contratti con la Cina. Nemmeno il piccolo Sri Lanka sfugge alle regole della geopolitica. Quanto al tè, le vendite vanno maluccio. O meglio, il prezzo del tè sul mercato internazionale è in calo costante da un paio d’anni. Segue, paradossalmente, la parabola del petrolio. L’oro nero alle pompe di benzina si riflette nell’oro nero in tazza grande.
Il tè è in crisi un po’ ovunque. È la Cina a detenere la palma del primo produttore mondiale e il vanto di una storia millenaria. Racconta la sinologa Isabella Doniselli che «allo stato selvatico il tè è una pianta che può superare i 10 metri: ecco perché il mitico sovrano Shennong, addormentatosi sotto un albero, vide cadere nel bollitore le sue foglie», facendo nascere la seconda bevanda al mondo dopo l’acqua. Ma anche in Cina la preziosa fogliolina vale sempre meno perché il governo ha levato i sussidi mentre la crisi ha contratto la domanda di importazioni in un Paese dove il tè non è mai abbastanza.
E per lo Sri Lanka, per un Paese che è il quarto produttore mondiale e dove il tè è il principale prodotto di esportazione (che val quasi 1,4 miliardi di dollari l’anno), minor richiesta e calo del prezzo del petrolio sono un serio problema.
Tè e petrolio? Si, perché da che il prezzo dell’oro nero è calato fino a soglie inaspettate, anche il prezzo dell’altro oro nero (o verde) è precipitato. Per la Lacrima dell’Oceano indiano son lacrime amare.
Se è vero che gli italiani risparmiano circa 500 euro l’anno quando vanno a fare il pieno, è vero anche che per un produttore di alimenti la caduta del prezzo del petrolio è una cattiva notizia.
L’agroalimentare, di cui il tè è uno dei grandi protagonisti, è ormai petrolio-dipendente grazie alle «rivoluzioni verdi» con trattori e mietitrebbie.
Ciò significa che ora si produce di più a meno ma l’eccesso di offerta globale fa cadere il prezzo. Se poi, per altri motivi, la domanda sul mercato si contrae, il prezzo si abbassa ulteriormente. Il tè costa meno ma lo beve anche meno gente e i margini di profitto si riducono. Specie tra i grandi compratori, come Russia, Arabia saudita o Paesi dell’Asia ex sovietica che sono anche produttori di petrolio.
Guadagnano meno e, in proporzione, comprano meno tè anche se il prezzo è basso. Molti altri grandi consumatori affrontano invece crisi di altro tipo: la Siria ad esempio, o l’Irak. Durante la guerra americana nel Paese di Saddam, la contrazione della domanda mandò in crisi i produttori srilankesi che vendevano agli iracheni il 15% del loro export. Chiesero aiuto al governo che dovette intervenire.
Come sta facendo adesso, ricomprando tè per stabilizzarne il prezzo. Di quanto è caduto? Sul mercato americano, largo consumatore in crescita (come l’Italia), è passato dai quasi 4 dollari al chilo del luglio 2015 ai 3,20 di gennaio. Alla borsa del tè di Londra (il secondo importatore mondiale) siamo a circa 3 dollari e mezzo.
Variazioni così, moltiplicate per tonnellate acquistate o vendute, produce differenze esorbitanti. E lacrime amare anche sulle dolci colline di Kandy.
Fonte: il manifesto
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