di Luciano Del Sette
Il trentuno dicembre 1999, alla rispettiva mezzanotte, le nazioni della terra salutarono l’avvento del Duemila e si congedarono dal Novecento. La corsa verso il Ventunesimo Secolo aveva tagliato il traguardo, annullando la distanza cronologica, ma soprattutto dissolvendo quell’aura mitica di cui il Duemila era ammantato. L’anno – simbolo per l’immaginario della fantascienza e della fantasia collettiva si apprestava a declinare i suoi dodici mesi nel semplice ruolo di anno di esordio del Terzo Millennio. Le rivoluzioni a vario titolo le aveva compiute, fallite, realizzate solo in parte, tradite, il Ventesimo Secolo. «Questa mostra è dedicata al Novecento e a un Duemila che, una volta raggiunto, si è rivelato bifronte: con una faccia rivolta al futuro e una fissa al secolo scorso. Proprio per questo non si vuole qui raccontare un secolo, ma interrogarlo. Non proporne un quadro compiuto, ma scomporlo in una serie di contraddizioni irrisolte».
È un’architettura di pensiero che occorre avere ben chiara quando, all’interno dei Quartieri Militari Juvarriani di Torino, appena inaugurati dopo una ristrutturazione finalizzata a ospitare il Polo del ’900, si accede agli spazi della mostra Lungo un secolo. Oppressioni e liberazioni nel Novecento. Interrogare un secolo è assunto che subito scaccia il sospetto di una mostra – bignami, di un azzardo di semplificazione. Interrogare un secolo è proposta e proposito che i curatori rivolgono al pubblico, fornendo dati, spunti di riflessioni, cronologie, basati su quattro coppie di parole contrapposte: sintesi, o se preferite esempi portanti, dei grandi processi di cambiamento avvenuti durante il secolo scorso e segnati dal conflitto tra aspirazione alla libertà e puntuali risposte in chiave oppressiva. Peppino Ortoleva dell’Università degli Studi di Torino ha curato la mostra insieme a Enrico Donaggio, Presidente dell’Unione Culturale Franco Antonicelli, e Guido Vaglio, Direttore del Museo Diffuso della Resistenza «Il Novecento visto dalla fine è stato di per sé piuttosto ambiguo, oppressione e liberazione si sono sempre intrecciati. Ci è sembrata una sfida particolarmente suggestiva sintetizzare un intero secolo in uno spazio limitato. Per farlo abbiamo attuato una scelta abbastanza radicale: focalizzarci su quattro binomi, «Le donne e gli uomini», «I bianchi e gli altri», «Umani e Macchine», «Poteri e Resistenze», ed enunciarli attraverso altrettanti monoliti tipo 2001 Odissea nello spazio, ciascuno contraddistinto su una facciata da un’illustrazione d’autore, realizzata per la mostra». L’altra facciata dei monoliti è costituita da un breve testo introduttivo al tema e da uno schermo dentro cui scorre un video di una decina di minuti. I video selezionati e montati dalla Ars Media, sembrano in questo caso rivestire un ruolo non del tutto usuale per una mostra «È così. L’esposizione del tema si presta a possibili e diversi livelli di lettura. Quella di uno studente potrà essere un po’didascalica e didattica, mentre una persona con maggiore consapevolezza culturale potrà notare la presenza di elementi spiazzanti sui quali abbiamo voluto giocare.
In tale ottica rientra l’uso del linguaggio sonoro, che in «Le donne e gli uomini» si avvicina al lessico del videoclip, quindi lieve, seppur contrappuntato da dati abbastanza impressionanti sui rapporti tra i due sessi a fine secolo. In «Uomini e macchine» il linguaggio visivo si avvale di alcune sequenze tratte dal lungometraggio La casa elettrica, con Buster Keaton, e di materiale da filmati industriali italiani e stranieri; immagini e parole divengono provocazione quando si arriva al video di Poteri e Resistenze». La modularità temporale è un altro dei criteri adottati pensando alla fruizione della mostra da parte di categorie diverse di visitatori. Una mezz’ora è sufficiente per acquisire un’idea generale; un’ora e mezza, due ore, danno forma a un percorso approfondito, che sosta di fronte alle parole scritte, alla cronologia dei percorsi paralleli, alla parete dei cento oggetti emblematici del secolo; che torna sui suoi passi per focalizzare e mettere a confronto. Guido Vaglio «La mostra, non va dimenticato, nasce all’interno del Polo del ’900, patrimonio di archivi e biblioteche. Ho ritenuto che il Museo della Resistenza dovesse presentare qualcosa che avesse a che fare con la propria specificità. Una mostra, appunto. Ma, seguendo la linea adottata in tutti questi anni, non tradizionale, non da istituto storico. Il lavoro fatto insieme agli altri curatori ha portato a una mostra che non pretende di raccontarti dal 1901 al 1999, e invece prova a dare dei tagli, degli stimoli, utilizzando i quattro binomi di parole in contraddizione e sviluppando al loro interno una somma di linguaggi: il film, il documentario, il materiale di archivio, le foto d’arte e di reportage, la letteratura, la musica, le arti visive. Ogni linguaggio, poi, si esprime su registri diversi, come succede in «Umani e Macchine», con Buster Keaton da una parte e il Roberto Rossellini di Paisà dall’altra. Lo sguardo è a volte inaspettato, sempre improntato a una certa leggerezza, lontana però da una visione superficiale. Lungo un secolo, poi, non ha nulla di univoco. Ciò che ci interessava era dare conto di cento, complessi, anni, nei quali intendevamo evidenziare come tutto si intersechi.
E la stessa dialettica tra oppressioni e liberazioni non solo non sia conclusa, univoca, ma sia stata capace di produrre risultati quasi paradossali. Basti pensare ai grandi movimenti di liberazione che hanno dato vita a grandi sistemi di oppressione». Una svastica e il Peace and Love del movimento hippy, contrapposizioni estreme, occupano la superficie del pannello/paravento all’ingresso della mostra. Pareti e soffitto scuri, scritte bianche su fondo blu, luci dentro strutture a gabbia puntate sui quattro monoliti. La scenografia di Lungo un secolo, progettata dai tecnici della Fondazione Teatro Regio, rimanda davvero alle atmosfere di 2001 Odissea nello spazio. Il testo del pannello introduttivo si apre con una frase di Umberto Saba, «Il Novecento pare abbia un solo desiderio: arrivare prima possibile al Duemila». E prosegue «… Il Ventesimo secolo è ancora con noi: le sue tecnologie (l’elettrificazione, il computer, la rete), le sue frontiere, i suoi conflitti, la sua stessa idea di stato continuano a connotare i caratteri principali del nostro mondo. La corsa in avanti che ha accompagnato il secolo passato non è finita. Interrogativi cruciali non hanno ancora trovato risposta: come conciliare l’interesse del singolo con i diritti di miliardi di abitanti della terra; come far convivere i poteri attuali con i diritti delle future generazioni; come evitare la distruttività delle armi che la tecnica moderna continua a creare. E ancora, come continuare e completare i cambiamenti che, lungo il secolo scorso, sono intervenuti nei rapporti fra i sessi, le etnie, gli strati sociali… ». Tre voci si spartiscono lo spazio del pannello successivo.
Anche Novecento si apre con una citazione, di Eugenio Montale «La storia non è magistra / di niente che ci riguardi», cui i curatori fanno seguire un punto interrogativo e una proposta «Forse dobbiamo invece provare a interpretare il secolo come un intreccio di processi storici e politici di durata diversa, che hanno toccato aspetti della vita umana apparentemente immutabili. Si sono modificati i rapporti tra le donne e gli uomini, le condizioni materiali e gli equilibri tra le diverse aree del pianeta. Ma è rimasto intatto il contrapporsi continuo e irrisolto tra liberazione e oppressione». Oppressioni «L’esercizio del potere è fatto di molti aspetti: materiali e mitici, organizzativi e persuasivi. Non sempre è pienamente riconoscibile, spesso è considerato naturale: come nel caso degli uomini sulle donne o degli adulti sui minori. Il Ventesimo secolo è stato caratterizzato dall’incrociarsi di due processi contrastanti: da una parte il realizzarsi di forme di oppressione senza precedenti; dall’altra il crescere della consapevolezza che molte gerarchie date per scontate non erano inevitabili». Liberazioni «Per gran parte del Novecento il progetto dell’emancipazione dalle forme di oppressione più dolorose e meno tollerabili – politica, economica, coloniale- ha avuto soprattutto il volto di un vero e proprio rovesciamento: la rivoluzione, il sogno di un nuovo inizio, per la società come per la persona… Poi, ed è stata una delle esperienze più tragiche e beffarde del Novecento, l’idea, o l’utopia, della rivoluzione politica si è a sua volta rovesciata in nuove forme di oppressione, a volte le più feroci mai conosciute». Gli uomini e le donne di Gabriella Giandelli spiccano nella luce di un fondo giallo. Li accomuna lo sguardo rivolto altrove, attraversato da un pensiero, disegnato da un dubbio. Le fogge degli abiti accennano appena ai cambiamenti delle mode. Fiori e rami fioriti si arrampicano dietro le spalle di una coppia matura, tra due ragazzi che si tengono per mano. Un cuore sanguina dentro una casa. Nel video sull’altra faccia del monolite, gli uomini e le donne diventano attori di realtà proposte in chiave grottesca (le pose e gli sguardi dei machos sciupafemmine) o drammatica nel pestaggio feroce delle suffragette per mano dei poliziotti americani. Occhi persi nel vuoto della disperazione, corpo magro ammantato di una luce spettrale, ha il bambino di Fabio Ramiro Rossin per «I bianchi e gli altri». Cruda, profetica, suona l’affermazione, 1903, di W. E. B. Du Bois, pioniere della liberazione dei neri americani «Il problema del Ventesimo secolo è la linea del colore». La carrellata delle immagini in movimento dà conto di cosa significhi, essere ‘altri’: minoranza da cancellare, popolo da assoggettare o sterminare, omosessuale da emarginare. La creatura mostruosa di LRNZ porta un mantello sopra un salopette blu e regge in una mano un cellulare che sta bruciando. Intorno a lui, fiamme e fumi infernali illuminano manifesti inneggianti alle invenzioni tecnologiche «Le macchine sanno produrre sollievo dalla fatica, tempo libero, beni seducenti o inutili, ma anche nuove forme di alienazione e sfruttamento. Corpi estranei, parti di noi stessi». Il monolite «Umani e macchine» precede l’ultimo, «Poteri e Resistenze».
Serena Schinaia consegna alle nostre riflessioni l’ambiguità del gigante e della folla che lo circonda, quasi lo ricopre. Quella sua espressione è indice di saggezza, oppure di arrogante indifferenza? La folla acclama il gigante, lo teme, insorge contro di lui? «Il secolo dello stato ha espresso forme di potere più organizzate che mai. I totalitarismi le hanno esaltate ideologicamente, mirando a un controllo assoluto su tutti gli aspetti della vita umana… Una delle più pesanti eredità del Novecento sta nell’avere mostrato i limiti della democrazia, senza prospettare vere alternative allo scontro tra poteri e resistenze». Il viaggio lungo un secolo finisce, o forse ricomincia, oltre la parete nera che Igort e Leila Marzocchi hanno riempito con un rosario di genti in fila verso migrazioni, deportazioni, esplorazioni, viaggi turistici. Dietro la parete scorrono nella cornice di un grande schermo frammenti che le raccontano, queste genti «Comprendere il Novecento significa anche seguire almeno alcuni tra i numerosi e diversissimi percorsi che hanno attraversato il pianeta: ne hanno esaltato l’unità e insieme ribadito le difficoltà di comprensione reciproca tra le culture; sono stati vissuti come una possibile liberazione o un’esperienza estrema di asservimento, come scoperta, rischio o delusione. Conducendo chi viaggiava ad allontanarsi da tutto ciò che gli era familiare per intraprendere altri itinerari, anche alla scoperta di se stesso». Comprendere il Novecento è la sola chiave in grado di aprire le porte del Duemila.
Fonte: il manifesto
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