di Marco Boccitto
Accusare fuor di metafora i paesi europei di neo-colonialismo non si usa quasi più. La Francia in particolare ha mandato in soffitta anche un neologismo dal retrogusto amaro come Françafrique, inventato con ben altri intenti nel 1955 da Felix Houphouët-Boigny. Il futuro primo presidente della Costa d’Avorio fu un po’ la guida di De Gaulle nell’agenda delle decolonizzazioni pilotate, ma la sua “creatura” restò presto invischiata nelle pagine più oscure dell’ingerenza francese nelle ex colonie, una spirale di abusi che ha infine calcificato l’accezione più negativa e largamente riconosciuta del termine. Per questo il presidente Hollande ne ha voluto firmare il certificato di morte durante una visita in Senegal nel 2012: basta con la Françafrique, da oggi «c’è la Francia, c’è l’Africa e c’è il partenariato tra Francia e Africa, con relazioni fondate su rispetto, chiarezza, solidarietà».
È dunque con fare rispettoso, chiaro e solidale che Parigi continua a tenere al guinzaglio le economie delle ex colonie, con diritto di prima e ultima parola sul loro debito pubblico e sulle loro banche centrali. E con la stessa gentilezza gli «affari africani» degli ultimi governi sembrano tendere ai medesimi scopi che prima erano affidati alle trame oscure di Jacques Foccart, il Monsieur Afrique di De Gaulle prima e Pompidou poi: mantenere sgombro l’accesso alle materie prime e garantire vantaggiose commesse ai grandi gruppi industriali francesi, con particolare attenzione al mercato delle armi (si veda su questo il dossier nel numero ancora in edicola di Le Monde diplomatique).
Sfida alla Cina e agli Usa
Si tratta sempre di proteggere gli interessi francesi e fregarsene del resto. Di nuovo c’è che il ruolo di «gendarme d’Africa» oggi si legittima volentieri con il tema della «sicurezza interna», mentre per scuotere la stagnazione dell’economia interna, gli indicatori economici regionali consigliano di puntare sui mercati variamente crescenti del continente africano. Perciò tra le potenze interessate a migliorare le proprie posizioni, la Francia è quella che sembra aver preso più seriamente la sfida economica con la Cina. Senza sottovalutare quella squisitamente militare – e in qualche modo anche culturale – con l’alleato americano.
Sì, il Pentagono ha da poco rilanciato e rafforzato i suoi programmi in Senegal, una ex colonia francese. Smacco paragonabile, per passare su un piano culturale ma non troppo, a quello subito dal mondo allargato della francofonia quando il Ruanda ha adottato l’inglese come lingua ufficiale e persino il Gabon, suddito fino a ieri impeccabile, ha dato il via a un’analoga transizione. Quasi che se non esistesse già una Freetown, in Sierra Leone, rischierebbe qualcosa pure il nome della capitale Libreville. Ma su questo Parigi troverà di sicuro delle contromisure, affiancando alla diplomazia dei ministri-piazzisti e al business delle industrie politicanti, come è tradizione, il lavoro spesso benemerito dei vari istituti di cultura francesi. Sul piano geo-politico e militare invece siamo già avanti.
Nei primi cinquant’anni di «decolonizzazione» (1960-2010), in virtù degli accordi di «difesa e cooperazione» siglati con buona parte delle ex colonie la Francia ha messo «gli stivali sul terreno» in almeno una quarantina di occasioni. E dopo? Nel 2011 la missione Licorne ha tecnicamente consentito all’attuale presidente della Costa d’Avorio, Alassane Ouattara, di diventare tale. L’anno dopo l’Sos è giunto da Bangui, dove il presidente centrafricano Bozize era in fuga con i ribelli Seleka alle calcagna. Il primo governo musulmano in Centrafrica ebbe però vita breve: quando la diplomazia francese convinse l’Onu che c’era il rischio di un genocidio, l’operazione Sangaris (settimo intervento francese dai tempi di Bokassa) rimise le cose a posto. Ma mise anche «l’onore della Francia in gioco», come ebbe a dire Hollande, non tanto per la gloria ricercata in battaglia quanto per le accuse di abusi sessuali sulla popolazione piovute anche sui soldati francesi. Nel 2013 infine l’operazione Serval salvò di fatto il governo centrale di Bamako dalla disfatta militare a cui sembrava condannato di fronte alla minaccia jihadista-secessionista esplosa nel nord.
La polizza di Ouattara
Bastione africano della continuità politica ed economica nelle relazioni con l’ex potenza colonizzatrice, la Costa d’Avorio nel 2011 provava a mettersi la guerra civile alle spalle ma Laurent Gbagbo si rifiutava di accettare la vittoria elettorale del rivale e si era asserragliato coi suoi pretoriani in un albergo di Abidjan. Le teste di cuoio francesi non ci misero molto a rimettere il paese sul viale del trionfo della democrazia. Solo oggi che Gbagbo è alla sbarra davanti alla Corte dell’Aja emerge con una certa chiarezza come imbrogli e atrocità non riguardarono solo una parte. Ma l’economista Ouattara, che è all’inizio del suo secondo mandato, ha saputo essere riconoscente, almeno quanto lo fu il suo più illustre predecessore, padre paternalista della Françafrique.
Al momento la Costa d’Avorio sperimenta i vantaggi che derivano dall’avere nel cacao il proprio petrolio, al riparo dagli sballottamenti che ultimamente caratterizzano il mercato mondiale degli idrocarburi. Ma soprattutto, a seguito della strage di Grand Bassam con cui lo Stato islamico ha fatto la sua clamorosa irruzione sui paesi rivieraschi dell’Africa occidentale, Ouattara si è trovato un premio assicurativo già saldato tra le mani. E visto che la «guerra al terrore» sarà pure eccezionale ma per combatterla non è ancora stato trovato un modo diverso da quello convenzionale, ecco cadere l’ambargo sulla vendita di armi e una serie di limitazioni accessorie che l’Onu aveva imposto nel 2004, in piena guerra civile, con la risoluzione n° 1572. Già ammorbidita nel 2014, quando a scadere furono le sanzioni riguardanti il commercio dei diamanti. Stavolta la proposta francese al Consiglio di sicurezza era di togliere integralmente e con effetto immediato l’embargo delle armi. E così è stato. Pochi giorni dopo la Francia annuncia il raddoppio della sua presenza militare in Costa d’Avorio. Le Forces françaises en Côte d’Ivoire (FFCI), il contingente che nel gennaio 2015 ha mandato in pensione Licorne, passano da 500 a 900 effettivi, truppe d’élite capaci di intervenire rapidamente in tutta l’area. O rapidamente correre in appoggio alla missione Barkhane, attiva più a nord, nel Sahel. Una regione immensa, centrifuga di energie ostili destabilizzate dalla caduta del regime di Gheddafi in Libia, quindi ancora una volta per responsabilità diretta della Francia.
Dal 2014 lo stato maggiore dell’operazione Barkhane si trova a Ndjamena, in Ciad, e dopo la rielezione di Idriss Déby al primo turno lo scorso 10 aprile ci resterà. Da 26 anni al potere con metodi a dir poco autoritari, il quinto mandato di Déby inizia con l’accusa di aver ordinato l’eliminazione di una sessantina di militari colpevoli di non aver votato per lui, da sempre fido alleato di Parigi. Lo è a maggior ragione ora che il Ciad è diventato strategico per la lotta contro Boko Haram. Un conflitto che non riguarda più solo il nordest della Nigeria ma coinvolge Camerun, Ciad, Benin e Niger.
Crisi di astinenza da uranio
Anche in Niger, annesso all’impero nel 1892 e liberato 62 anni più tardi, si pè cercato di garantire status quo e vantaggi dell’era imperiale. Le Forze coloniali francesi sono diventate Forze armate nigerine e Parigi ha mantenuto i suoi soldati nel paese. Il cui valore strategico è dato dalla dipendenza dell’industria nucleare francese dalle sue miniere di uranio.
Proprio la guerra regionale a Boko Haram, che minaccia di saldarsi alle turbolenze qaediste nel Sahel, offre a Parigi una nuova occasione di protagonismo. Dopo aver ospitato all’Eliseo il summit «per la Pace e la Sicurezza in Africa» nel 2013, unico leader «straniero» presente alle celebrazioni per il 50enario dell’Unione africana, François Hollande il prossimo 16 maggio sarà il solo capo di stato occidentale al summit che riunirà in Nigeria la grande coalizione internazionale scesa in campo contro Boko Haram, di cui fanno parte anche Usa e Gran bretagna.
Seconda economia africana, primo produttore di petrolio, un mercato gigantesco in rapida crescita, la popolosa Nigeria ha tutte le disponibilità per diventare il prossimo buon cliente dell’industria bellica francese, dopo le ricche commesse strappate nel 2015 in Egitto e India. E anche qui l’alibi della «guerra al terrore» produce deroghe ai diritti che l’ex generale golpista Muhammadu Buhari, da poco eletto presidente, sarà lieto di considerare.
Se non è neocolonialismo questo e non è neanche Françafrique, urge trovare un’altra parola per definirlo.
Fonte: il manifesto
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