di Marco Bascetta
Sessantuno anni di carcere per 15 condanne, la più pesante (9 anni) inflitta a Giacomo Spinelli, ritenuto responsabile dell’incendio di una camionetta dei carabinieri in piazza S. Giovanni a Roma il 15 ottobre del 2011 al termine di una foltissima manifestazione, teatro di ripetuti scontri con le forze dell’ordine. Quanto avvenne in piazza quel giorno nella capitale fu oggetto di polemiche e controversie tra gli stessi promotori e partecipanti al corteo degli «indignati italiani». Discutibili gli obiettivi colpiti nella loro casualità, discutibili le forzature compiute. Tuttavia una cosa era risultata del tutto chiara alla fine della giornata: gli scontri in piazza San Giovanni non erano stati un gioco di guerriglia allestito da uno spezzone «militarizzato» del corteo, ma avevano coinvolto un gran numero di manifestanti, non tutti usciti di casa con l’intenzione di menare le mani.
Le forze dell’ordine, per disperdere la manifestazione, avevano fatto ricorso a idranti, caroselli di auto a gran velocità e lancio di lacrimogeni ad alzo zero. Le camionette furono usate come macchine da guerra, lanciate per investire chiunque non si fosse dato precipitosamente alla fuga ( e qualcuno fu effettivamente investito). L’icona mediatica della camionetta in fiamme strappata a questo contesto perde gran parte del suo significato per proporci un atto di puro e semplice vandalismo, un gesto riconducibile all’estetica della violenza.
Che il quadro risulti ancora largamente incompleto lo testimonia però il fatto che i giudici della IX sezione del tribunale penale di Roma, dopo aver dato lettura della sentenza, abbiano disposto la trasmissione degli atti alla procura con lo scopo di valutare i comportamenti delle forze dell’ordine e gli eventuali abusi. Di cui, evidentemente, non si sono potute cancellare le tracce e di cui chi partecipò a quella manifestazione conserva precisa memoria.
Ma questa posticipazione dell’indagine sulle forze di polizia ha impedito che l’azione degli imputati potesse essere valutata nel contesto in cui si è svolta. E la sentenza potesse tenere debitamente conto dell’atmosfera esasperata in cui si svolsero i fatti. Questo modo di procedere rispecchia una filosofia giudiziaria che non considera la violenza di piazza come un fenomeno relazionale che si produce in determinate situazioni, ma come una scelta unilaterale, premeditata, malignamente onanistica. Quando non una vera e propria vocazione. Contro la quale vengono rovesciate imputazioni come «devastazione e saccheggio» o addirittura «terrorismo» (in val di Susa) mostruosamente sproporzionate rispetto ai fatti in questione.
Converrà comunque ricordare che la repressione seguita agli scontri del 15 dicembre 2011 a Roma una vittima la ha mietuta davvero. Si chiamava Leonardo Vecchiolla ed era uno studente di 26 anni. Rinviato a giudizio con imputazioni pesantissime ( saccheggio e tentato omicidio di un carabiniere ) si è tolto la vita ad Ariano Irpino sparandosi alla testa nell’autunno del 2014. Le prove a suo carico erano tutt’altro che schiaccianti. Episodi drammatici come questo dovrebbe far riflettere sulle lunghe misure preventive, tali da sconvolgere completamente il normale corso della vita, inflitte allegramente a tanti ragazzi e ragazze (arresti domiciliari, confino, obblighi di firma) impegnati nelle lotte sociali da Bologna a Torino.
Fonte: il manifesto
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