di Claudio Vercelli
Il disegno di legge che dà corpo e sostanza al reato di negazionismo è passato al Senato della Repubblica, dopo un tortuoso iter, non privo di colpi e contraccolpi, tra dilazioni, mediazioni, negoziazioni, concessioni e chiusure di vario genere. Peraltro, le perplessità di merito espresse da alcuni parlamentari, appartenenti anche a schieramenti diversi, sono state risolte con un dispositivo linguistico, incorporato dentro il testo della futura legge, che potrebbe prestarsi ad un conflitto di interpretazioni (e quindi di sentenze) nel momento in cui i magistrati verranno chiamati ad esprimersi nei singoli casi che saranno presentati in giudizio. Avremo modo di tornare, in futuro, nel merito del rischio di incongruità che alcuni giuristi, parlamentari e studiosi vanno rilevando. Lo si farà a legge definitivamente licenziata e approvata, testo alla mano.
Rimane il fatto che se una norma di tale genere cerca di arginare l’evoluzione pericolosa che presenta il fenomeno negazionista, ai nostri giorni meno ancorato alle sue origini ideologiche e politiche (la destra neonazista) ma sempre più spesso accompagnato alle prassi di delegittimazione del presente, quest’ultimo letto semmai come il prodotto di complotti e di manipolazioni, quel che rimane è la sensazione che comunque lo strumento legislativo sia di per sé insufficiente.
Le obiezioni sono molteplici e spaziano in campi tra di loro molto differenti. È da tralasciare il discorso sulla libertà di opinione (la negazione dell’evidenza, tanto più quando essa ha immediati riflessi sul piano civile, morale e sociale, non è un’opinione ma una mistificazione).
Semmai il problema da porsi è lo spostamento che l’applicazione concreta di una tale legge comporterebbe, nel caso di processi destinati a richiamare l’attenzione del pubblico, polarizzandone quindi le impressioni al riguardo, dal merito di ciò che è fatto oggetto di giudizio alla figura dei giudicati.
Non va infatti sottovalutata la capacità istrionesca, narcisista e vittimista che una parte dei cosiddetti “negazionisti” riescono ad esprimere, sapendo che come c’è una sentenza che viene emessa in aula così possono darsi altre sentenze, quelle di senso comune (che spesso non corrisponde al buon senso, per inciso) tra la collettività. Nel qual caso, si può stare certi che i primi cercheranno di costruirsi un’aura di perseguitati.
L’essere condannati dalla legge per un delitto non implica in immediato che tra la “gente” ciò sia recepito come fatto rispondente ad equità e giustizia.
In questa sorta di interstizio il negazionismo gioca una parte delle sue carte, cercando un accreditamento che, nel qual caso, gli sarebbe offerto dal raffigurasi come “ingiustamente condannato” in ragione di una “semplice opinione”.Il negazionismo non si alimenta di studi, ricerche, confronti e riflessioni ma di echi mediatici.
Se si fa eccezione per un autore italiano, e per poche altre figure marginali, che hanno fatto ricorso a letture sia pure capovolte o distorte delle fonti, per il resto l’ambiente negazionista è un circuito puramente ideologico, pregiudizioso, rigorosamente antisemita, alla spasmodica ricerca di visibilità mediatica. I processi ne potrebbero costituire involontaria cassa di risonanza.
Non di meno, ed è un’altra obiezione da considerare, se il negazionismo non ha a che fare con la storia (essendo semmai una costruzione ideologica sospesa tra l’immaginazione paranoide e la visione capovolta di alcuni fatti del mondo) va rilevato che il contrasto alla sua diffusione – se è questo l’obiettivo da raggiungere – non può passare solo attraverso i tribunali. La questione, a ben vedere, va ben oltre l’oggetto di questa riflessione.
Infatti, si affida in tale modo alla magistratura una funzione di deliberazione che rischia di trasformarsi in potere di convalida del giudizio sui fatti del passato e su quanti siano legittimarli ad esprimerli. La propensione a risolvere i conflitti di interesse, di interpretazione, di giudizio ma anche di pregiudizio affidandosi esclusivamente agli ordinamenti del potere giurisdizionale implica il riconoscere che non ci siano altre istanze sociali e culturali capaci di affrontarli, negoziarli e superarli con efficacia, attraverso una giustizia che non sia solo quella avocata e riconosciuta al giudice. Di fatto, senza troppi giri di parole, è la dichiarazione che qualsiasi soggetto politico, culturale, educativo o cos’altro (poco importa) abbia fallito o sia incapace di operare adeguatamente.
Si crea così una situazione di forte asimmetria, dove la parola ultima è assegnata al magistrato, assecondando un criterio che non appartiene ai sistemi europei ma è importato dal mondo anglosassone, dove vige, notoriamente, la Common Law. Le implicazioni di lungo periodo di una conflittualità ricondotta a cause e aule di giustizia, non è per nulla detto che costituisca la via migliore per fare fronte al negazionismo.
La questione, per essere chiari fino in fondo, rimanda non alla discussione (quale, poi?) sull’accettabilità o meno della ripugnante provocazione dei negatori ma all’ordine di sanzioni che meglio ne possano contenere gli effetti deleteri. Poiché seguendo la via della perseguibilità penale rafforzata, quella che per l’appunto si basa sull’applicazione della fattispecie penale del negazionismo, si rischia di abbandonare qualsiasi altro percorso.
Nella fallace convinzione che se qualcuno provoca c’è già chi provvederà a “regolare i conti”. Con un ulteriore rischio, ovvero quello di rafforzare in una parte dell’opinione pubblica che quanto sarà sancito per sentenza sia, alla resa dei conti, una “verità di Stato”. Quindi, come tale, sospetta a prescindere poiché in qualche modo imposta attraverso la coercitività della deliberazione della magistratura.
Chi si affida al ruolo di quest’ultima come istanza ultima ed incontrovertibile nelle polemiche, ancorché odiose, che rimandano alla storia collettiva e alla sua interpretazione, evidentemente ritiene che la sua supplenza dinanzi alla crisi della politica e alla perdita di autorevolezza della cultura e dei percorsi educativi sia oramai una necessità assodata e, come tale, inemendabile.
Ci sia permesso di dissentire, malgrado tutto, tanto più dinanzi ad una realtà, quella che stiamo vivendo, dove la coesistenza nella medesima società di persone con origini, provenienze e identità diverse costituisce una sfida necessaria, ineludibile al modo in cui intendiamo raccontare la storia in quanto strumento di coesione sociale e cittadinanza.
Il problema, evidentemente, non è quello di ancorarsi ad un’astratta concezione del garantismo liberale ma di adoperarsi nel dare fiato a politiche dell’identità che non rafforzino pericolosi identitarismi, o comunitarismi di ritorno, bensì processi di integrazione dentro un quadro di regole repubblicane, democratiche e laiche. Un’ultima considerazione, tra le tante possibili, è quella che rimanda al ruolo degli storici di professione. Buona parte di essi si sono espressi, a volte anche con forza e determinazione, contro il disegno di legge da tempo in discussione.
Le argomentazioni addotte, efficaci o meno che fossero, non hanno trovato grande riscontro tra i parlamentari.
Un fatto, quest’ultimo, che può essere letto in molti modi. A partire dalla determinazione dei senatori e dei deputati di applicare anche in Italia le disposizioni dell’Unione europea che sanciscono dal 2008 la punibilità della negazione indipendentemente da altri ordini di considerazioni.
Ma accanto a ciò, e al malumore serpeggiante in una categoria di studiosi che si sente spesso scavalcata dai fenomeni di mediatizzazione del racconto del passato, dove tutto si fa“emozione”, impressione occasionale, immedesimazione di circostanza, c’è anche l’incapacità della medesima di rivolgersi al grande pubblico, non tanto per cercare un facile assenso bensì per fare in modo che la narrazione storiografica non sia solo una disciplina ma soprattutto uno strumento sociale d’uso comune.
In questo difetto, all’interno di una società, quella contemporanea, che produce più memorie di quanta storia riesca effettivamente a consumare (se quest’ultima è strumento di coesione sociale e non di effimere contrapposizioni, fini ad alimentare rivalse e rabbiosità sociali sotto false spoglie), si legge in controluce il limite di una categoria che continua a pensare a sé come ad un corpo separato (o separabile), in fondo piuttosto geloso, almeno in alcune sue componenti, delle proprie prerogative di ceto, tanto più quando ancorate ad istituzioni pubbliche, a interessi di gruppo, a dinamiche che dicono di volere essere inclusive quando invece rivelano un aristocraticismo di fondo.
Un paradosso del negazionismo, soprattutto sul web, è quello di indurre in quanti si rivolgono ad esso la sensazione, non importa quanto falsa, di una contro-storia (o di una storia contro-fattuale) “finalmente liberata” dalle presunte incrostazioni che deriverebbero dai saperi specialistici e dall’agire di coloro che ne sono dichiarati depositari e titolari.
In questo aspetto, il negazionismo 2:0, che molti studiosi non hanno ancora capito in cosa consista, trattandosi della riduzione della storia a opinione usa e getta, è totalmente consustanziale a quel meccanismo che fa dei fondamentalismi e dei populismi le due facce della medesima medaglia. Le esecrazioni, al riguardo, servono solo a rafforzare tale declivio intellettivo, morale, civile e, infine, politico.
Fonte: Caratteri Liberi
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