di Raniero La Valle
Vorrei partire, come spesso amo fare, dai fatti accaduti negli ultimi giorni. Il primo, del 20 maggio scorso, è la presentazione del rapporto annuale dell’ISTAT, che ha compiuto ora novant’anni di vita. Questo rapporto ci racconta i dolori della situazione presente, con tutta la disperazione dei giovani, che sono arrivati a una disoccupazione del 25,7 per cento; però quest’anno ci racconta anche la storia di novant’anni da quando l’ISTAT ha cominciato a fare le statistiche, cioè a partire dai nati nel 1926. La storia comincia cioè dalla generazione dei partigiani, quelli che avevano venti, trent’anni nel 1945, i quali non solo hanno fatto la Resistenza e la Costituente, ma poi hanno rifatto l’Italia. Per dire di che si tratta, possiamo ricordare i partigiani di Reggio Emilia, che si vendettero un carro armato rimasto sulla piazza, per fare gli asili nido.
Badate bene: non lo rottamarono, ci fecero un asilo nido, così i partigiani e le partigiane diedero inizio a quella straordinaria esperienza pedagogica e sociale che poi doveva essere la scuola dell’infanzia di Reggio Emilia, oggi nota in tutto il mondo.
Ebbene, quando la generazione dei partigiani ha governato l’Italia, il prodotto interno lordo è cresciuto del 7 per cento all’anno, dall’agricoltura si è passati all’industria e poi al terziario, nel 1963 si raggiunse la piena occupazione, si facevano un milione di figli all’anno, si scatenò la stagione dei diritti, e l’Italia, dal Nord al Sud, veniva invasa da frigoriferi, televisori e utilitarie, fino ai computer di oggi; e tutto ciò con quella Costituzione lì; e per questo i partigiani oggi, proprio come partigiani, difendono la Costituzione, e non come una cosa di parte; e quelli che oggi ci governano con i telefonini, dovrebbero sapere che a metterglieli in mano è stata la generazione dei partigiani.
Badate bene: non lo rottamarono, ci fecero un asilo nido, così i partigiani e le partigiane diedero inizio a quella straordinaria esperienza pedagogica e sociale che poi doveva essere la scuola dell’infanzia di Reggio Emilia, oggi nota in tutto il mondo.
Ebbene, quando la generazione dei partigiani ha governato l’Italia, il prodotto interno lordo è cresciuto del 7 per cento all’anno, dall’agricoltura si è passati all’industria e poi al terziario, nel 1963 si raggiunse la piena occupazione, si facevano un milione di figli all’anno, si scatenò la stagione dei diritti, e l’Italia, dal Nord al Sud, veniva invasa da frigoriferi, televisori e utilitarie, fino ai computer di oggi; e tutto ciò con quella Costituzione lì; e per questo i partigiani oggi, proprio come partigiani, difendono la Costituzione, e non come una cosa di parte; e quelli che oggi ci governano con i telefonini, dovrebbero sapere che a metterglieli in mano è stata la generazione dei partigiani.
Un altro avvenimento che vorrei ricordare qui a Lucca, considerata “città bianca”, è il lamento che il papa ha rivolto il 6 maggio scorso ai leader europei, ricevendo il premio Carlo Magno: “Che cosa ti è successo Europa – ha detto - un tempo paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà”? Perché oggi, invece, è stanca e invecchiata, pronta ad alzare muri invece di costruire ponti.
Con questa denuncia il papa dimostrava un acuto senso della crisi. La stessa coscienza della crisi mostrava nei confronti dell’Italia qualche giorno dopo, il 16 maggio, parlando ai vescovi della Cei. “Anche in Italia – ha detto – tante tradizioni, abitudini e visioni della vita sono state intaccate da un profondo cambiamento d’epoca”; per i preti il contesto culturale è molto diverso da quello in cui hanno cominciato il loro ministero, ed oggi – ha detto il papa – dobbiamo avvertire la durezza del nostro tempo: “quante persone incontriamo che sono nell’affanno per la mancanza di riferimenti a cui guardare! Quante relazioni ferite! In un mondo in cui ciascuno si pensa come la misura di tutto, non c’è più posto per il fratello”.
La prova del referendum in un Paese smarrito
Dunque c’è uno smarrimento, i rapporti sono feriti. Tutti noi sentiamo questa inquietudine, questo sgomento che turba la società civile; la gente soffre, ha perso i punti di riferimento, si sente precaria, in balia di poteri e di forze che non può controllare. L’antipolitica non è superficiale, è un pensiero profondo, perché viene da lì, viene da questo sentimento di estraneità. Perfino la terra non è più affidabile: ci dicono che se sale di due gradi la temperatura, non avremo più nemmeno la terra sotto i piedi: ma la temperatura è già salita di oltre due gradi! Non si possono fare progetti. Diceva Dietrich Bonhoeffer nelle sue lettere dal carcere: “Noi siamo cresciuti nell’esperienza dei nostri genitori e dei nostri nonni che l’uomo possa e debba progettare, costruire e plasmare la propria vita in prima persona, che la vita abbia uno scopo per il quale l’uomo deve decidersi e che poi possa perseguire con tutte le forze. Ma ora abbiamo imparato che non possiamo concepire progetti nemmeno per l’indomani” (Resistenza e resa, Edizioni paoline, pag. 367).
Ebbene ora su questo smarrimento piomba la lacerazione del referendum per cambiare la Costituzione. A freddo, per un calcolo della casta politica, il Paese viene frantumato tra il sì e il no alla Costituzione; si aggiunge spaesamento a spaesamento, e si getta allo sbaraglio una cosa che ritenevamo sicura. E lo si motiva con argomenti volgari. Sicché potremmo chiedere: Che cosa ti è successo Italia, se ti fai dire che cambiano la Costituzione per diminuire le poltrone e per risparmiare al governo una fiducia? Questo infatti ha detto Renzi aprendo sabato scorso la campagna per il Sì. .
Ma quanto costa rompere la fiducia? Già ne era rimasta poca, ma la Costituzione era tra le poche cose che ancora ci univa. Siamo infatti divisi su tutto, il sistema politico e le leggi elettorali ci hanno polarizzato in fazioni contrapposte, in due o tre aggregazioni nemiche che si odiano e si insultano senza mai veramente parlarsi, siamo divisi sull’euro, sull’Europa, sull’accoglienza ai profughi e sulla guerra alla Libia, ma almeno c’era la Costituzione che ci univa con la sua garanzia dei diritti, della pace, del protagonismo della grande platea dei cittadini.
Come ha scritto l’altro giorno sulla “Repubblica” Alfredo Reichlin, che è uno dei padri nobili del Partito Democratico, quando si trattò di ricostruire una nazione dopo la tragedia del fascismo e della guerra, ciò avvenne sull’idea della Costituzione come il necessario “stare insieme” degli italiani, di tutti gli italiani. “E ciò per l’assillo di far fronte alle sfide di quel tempo: le rovine di una guerra perduta, il rischio di una guerra civile, di una lacerazione tra Nord e Sud, ecc.”. Così anche adesso, diceva, c’è il bisogno e la necessità di ritrovarsi in una “casa comune”
Invece la stiamo facendo a pezzi.
Rottamazione significa questo: fare a pezzi ciò che, vivendo, era unito.
Ci sarebbe una bella riforma da fare
Si dice però che la Costituzione era invecchiata. Era da venti anni, o addirittura da settanta, per chi non sa fare i conti, che volevano cambiarla. Era lenta, dicono, funzionava ancora e gettoni in un mondo digitale. Va bene, allora cambiamola. Ma si tratta di una Costituzione, cambiamola dunque per farci grandi cose, per esempio mettiamoci che la pace non è solo un diritto, ma anche un dovere, come sta scritto nella Costituzione della Colombia. Mettiamoci che nei bilanci pubblici le spese sociali, le spese per la scuola, le spese per la sanità, non devono mai scendere sotto una certa soglia, devono crescere man mano che si riducono le spese militari, quelle della burocrazia e altre spese improduttive. Mettiamoci il reddito di cittadinanza. Mettiamoci che le banche servono agli Stati e non gli Stati alle banche. Mettiamoci che l’euro non vuol dire che non siamo più sovrani sulle decisioni dell’economia e della finanza. Mettiamoci che a Bruxelles decidono i popoli e non le Troike. Mettiamoci un’Europa unita nella giustizia e nel diritto, non nelle lacrime e sangue dei disoccupati e dei poveri. Mettiamoci che tutti hanno diritto di asilo, i bambini nelle scuole e i profughi in Europa. Mettiamoci, come voleva fare Dossetti alla Costituente, che lo Stato riconosce come originario l’ordinamento giuridico internazionale, in modo che non soccomba alla sovranità degli Stati. Mettiamoci, come chiedeva lo stesso Dossetti, il diritto alla resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri che violino le libertà fondamentali e i diritti costituzionali oppure mettiamoci, come è già scritto nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, “la ribellione contro la tirannia e l'oppressione”.
E invece si butta a mare metà della Costituzione per una riforma miserevole. Renzi ha messo in rete un sito il cui indirizzo web dice: “basta un Sì”. Ma questo Sì. è per fare una caricatura del Senato e una parodia di senatori, per togliere al governo l’incomodo di chiedere la fiducia a due Camere, per rendere più difficile presentare leggi di iniziativa popolare, per indebolire presidente della Repubblica e organi di garanzia, per mettere nelle mani dei prefetti il potere di supremazia dello Stato sulle Regioni, per far decidere a uno solo la dichiarazione dello stato di guerra, e, grazie alla legge elettorale pigliatutto detta Italicum, per dare il potere a un solo partito, e così preparare un trono alla destra.
I cattolici del NO
È per scongiurare questo pericolo che noi abbiamo costituito un movimento dei cattolici del No. E subito c’è stata una polemica perché altri cattolici e la stampa laica hanno detto: che cosa c’entra la fede con la Costituzione? Sostengono che la scelta tra l’uno e l’altro modello costituzionale non si fa come cattolici ma solo come cittadini, altrimenti ci sarebbe una caduta clericale, una regressione all’integrismo. Ma è stato facile rispondere che la laicità non vuol dire sterilizzare o nascondere la fede, che le società hanno anche una causazione ideale, e che l’ordine stabilito e fissato nel diritto ha bisogno di un punto di vista esterno che lo critichi per essere continuamente superato. Fare appello a dei mondi ideali, e anche alla fede, non è integrismo, ed anzi crea un potenziale di laicità perché non accetta che le cose siano semplicemente come sono. C’è un’anima nel diritto. La nostra Costituzione è una cosa laica e profana, ma ciò non toglie che sia impregnata di valori cristiani. Il fatto che essa dichiari la Repubblica fondata sul lavoro, realizza il rovesciamento cristiano dei servi in signori. Il fatto di mettere al centro di tutto la persona umana, vuol dire che nulla può essere anteposto all’uomo, immagine di Dio; dire che la Repubblica rimuove gli ostacoli, anche economici e sociali, che impediscono alla vita di realizzarsi come umana, vuol dire vincolare il potere non solo alla giustizia, ma alla misericordia, e l’aver affermato, all’art. 8, la libertà non solo della Chiesa ma di tutte le confessioni religiose, vuol dire avere anticipato il pluralismo religioso proclamato dal Concilio.
Questo fa si che i cattolici sentano la Costituzione come un patrimonio loro, che ricordino con gratitudine i migliori di loro – De Gasperi, Moro, Dossetti, La Pira, Lazzati, Angela Gotelli – che l’hanno scritta insieme a Togliatti, Nenni, Basso, Calamandrei, Teresa Mattei. Questo fa sì che non l’abbiano mai considerata in contrasto con il Vangelo. Un’antitesi come quella enfatizzata da Renzi – ho giurato sulla Costituzione non sul Vangelo – è una sorpresa per il cattolicesimo italiano.
Tutto ciò spiega perché in questa campagna referendaria i cattolici del No siano scesi in campo per difenderla, per impedire, come hanno scritto nel loro appello, che se ne faccia strumento di una democrazia dimezzata.
Questo però non ha nulla a che fare con una mitizzazione o sacralizzazione del testo costituzionale. La sorpresa invece è che la sacralizzazione è venuta dall’altra parte. Cambiare la Costituzione è presentato come un dovere sacro, sacra è la sua immolazione. Sul Sì alla riforma Renzi ha deciso di giocare il tutto per tutto: pancia a terra per sei mesi, ha detto ai suoi del partito, diecimila banchetti per raccogliere le firme in tutta Italia, un esercito di attivisti che vada di porta in porta; e se il Sì non vince, ripete, me ne vado, rinuncio alla carriera politica; perché non posso andare in TV e dire: non abbiamo vinto, ma i Sì sono arrivati al 45%. Senza il plebiscito, non rimane.
Ebbene, su questa scommessa, su questo gioco d’azzardo che si è voluto imporre al Paese, occorre porsi alcuni quesiti e poi prendere delle decisioni politiche. Non parlo qui delle decisioni politiche che devono prendere i partiti, parlo delle decisioni politiche che dobbiamo prendere noi, cioè che deve prendere il popolo: è lui infatti in questo momento l’unico sovrano, perché non c’è più la sovranità di un Parlamento delegittimato come non rappresentativo da una sentenza della Corte, ed è in qualche modo sospesa la sovranità della Costituzione che è entrata in modalità provvisoria.
La minoranza cancellata
La prima questione da porsi è se il plebiscito voluto da Renzi è solo un modo ridondante di partecipazione alla campagna referendaria, o se rivela già la sostanza di ciò che sarà la nuova Costituzione.
Io credo che se la Costituzione dice: referendum, e il governo risponde: plebiscito, il sovvertimento costituzionale è già avvenuto, non c’è bisogno di aspettare per vedere come funzionerà il nuovo sistema. Quello che entra in funzione è infatti un sistema in cui le minoranze non sono previste. Non si tratta del fatto che siano battute politicamente, ma del fatto che dal potere siano messe fuori del sistema, come non esistenti e non pervenute.
Che cosa dice infatti l’art. 138 della Costituzione? L’articolo 138 dice che se la maggioranza assoluta dei due rami del Parlamento cambia la Costituzione senza raggiungere però i due terzi dei voti, la minoranza, ovvero una minoranza di parlamentari, di Regioni o di cittadini, hanno ancora una possibilità per opporsi attivando un referendum per l’accettazione o il rifiuto della riforma. E’ chiaro dunque che il referendum costituzionale è un’arma che dalla Costituzione è messa in mano alle minoranze, in modo che sulle nuove regole possano davvero giocare tutte le loro carte le diverse parti del Paese. Ma se la maggioranza, per di più eletta con la legge che sappiamo, dopo aver dominato il Parlamento, gioca anche la seconda parte in commedia, mettendosi al posto della minoranza e trasformando il referendum predisposto ad uso della minoranza in plebiscito ad uso del governo, ciò significa che nella concezione della democrazia della nuova Costituzione, la minoranza non c’è.
Del resto non solo in questo nella campagna elettorale di Renzi già si rivela la nuova Costituzione: diecimila comitati, mille professori, la TV tutta per lui ed i suoi, gli altri ridotti al silenzio, chi non è con lui non è un vero partigiano, non è un vero professore, non è un vero cittadino; la democrazia di questa Costituzione è la democrazia in cui chi è più gonfio pretende ed esercita tutto il potere; non finisce solo una Camera, ne finiscono due.
Il potere come idolo
La seconda questione ci porta a chiederci perché di questa modifica costituzionale si è voluto fare una specie di santo Graal, cioè un assoluto. E come se da questi nuovi cinquanta articoli della Costituzione dipendesse il destino della terra, il destino degli italiani e naturalmente il destino del presidente del Consiglio. C’è la mitizzazione di questo evento. Non era mai successo, neanche quando la Costituzione fu scritta, che le alternative del dettato costituzionale venissero sacralizzate, presentate come irrinunciabili dall’una o dall’altra parte, benché i costituenti non fossero certo agnostici ma cattolici o comunisti o socialisti o liberali.
Ma ora l’idolo è saltato fuori, e non nel campo di quanti difendono la Costituzione del ’48 ma nel campo di quelli che la vogliono rottamare. L’altare all’idolo è la rottamazione stessa. Non ci sarebbe cosa più importante di questa: ce lo chiede la gente – dicono – ce lo chiedono i mercati, ce lo chiede l’Europa, basta un Sì e poi l’Italia riparte; e a questo supremo ideale tutto deve essere sacrificato, non solo i duecento senatori, non solo il Senato, non solo il pluralismo della rappresentanza immolato sull’altare dell’Italicum, ma la stessa carriera politica del riformatore, il suo destino politico e quello della sua squadra. Se non si vince, a ottobre si va via. Il sacrificio sarà compiuto. E poi, sottinteso, verrà la notte.
Perché questa drammatizzazione? Perché questo assoluto messo in alto come posta in gioco della partita? Perché questa sacralizzazione dello scontro? Perché questo sacrificio?
Se la riforma fosse la piccola riforma che si vuol far credere, se fosse solo qualche milione risparmiato per Palazzo Madama, la casta un po’ più leggera, una fiducia in meno e un po’ di fretta in più, questa messa in scena non sarebbe credibile.
Ci deve essere di mezzo qualche altra cosa, ci deve essere quello che il No teme: l’arresto del ciclo della democrazia costituzionale inaugurato nel ‘900, il ritorno a statuti di tipo autoritario, poteri economici non vincolati da Stati di diritto, mercati non più turbati dalla contestazione delle utopie politiche, la chiusura del cerchio della globalizzazione monetarista. Insomma il potere nella sua versione postmoderna, postilluminista e postrivoluzionaria.
Se la posta in gioco è questa, la drammatizzazione sacrificale è del tutto comprensibile.
Ciò che è meno spiegabile è perché gran parte del mondo politico e culturale italiano se ne sia fatta contagiare, cedendo ad una sorta di fatalismo costituzionale che non ha alcuna giustificazione.
E come se ci fosse una tacita accettazione del fatto che Renzi appartenga al nostro futuro, come se egli fosse stato tessuto dalle Parche nel nostro destino, sicché scatta un principio di fatalità, per il quale si dice che la nuova Costituzione è sbagliata, o addirittura orribile, e tuttavia bisogna votarla, perché è meglio di niente e perché oggi non ci sarebbero alternative. Naturalmente non è vero, ma questa è la posizione espressa in tutti i format televisivi da molti intellettuali e politici, a cominciare da Cacciari; anche la Civiltà cattolica sembra più intimidita che persuasa.
Le alternative ci sono
Se così stanno le cose quali sono le decisioni politiche da prendere?
La prima è di votare No nel referendum costituzionale senza tenere affatto conto di qualsiasi cosa Renzi dica del proprio futuro. E ciò per tre ragioni.
La prima è che per quanto possa essere importante la sorte politica del presidente del Consiglio e del governo, la Costituzione è più importante. Essa non è una variabile dipendente dalle incognite di vita del governo pro tempore, e merita di essere oggetto di una scelta in sé espressa con un Sì o con un No senza riserve mentali.
La seconda è che quanto è annunciato da Renzi sulla sua decisione di lasciare la vita politica se perde nel gioco d’azzardo referendario, non è attendibile, perché Renzi non ci ha abituato a credere alla verità dei suoi annunci.
E la terza ragione è che le cose andranno in tutt’altro modo: Renzi non se ne andrà affatto di sua volontà, altrimenti non avrebbe sacrificato la sua vita al potere. Se sconfitto al referendum, Renzi presenterà le dimissioni al capo dello Stato ma senza aver avuto una sfiducia del Parlamento, e aspettandosi perciò che il presidente della Repubblica lo mandi alle Camere per la verifica; ciò rimetterebbe Renzi in gioco e consegnerebbe la decisione al Partito Democratico e ai suoi alleati e clienti, se gli altri non si muovono.
L’altra decisione politica da prendere è su ciò che dobbiamo fare dopo il referendum. Ciò che il popolo sovrano deve stabilire è che non è vero affatto che non ci siano alternative, ma che siamo noi stessi che le dobbiamo determinare.
Certo in un sistema giunto già a questo grado di desertificazione della democrazia, è difficile vedere alternative già pronte. Ma la decisione da prendere è appunto di ripopolare il deserto, di ripiantare gli alberi divelti, di irrigare le terre inaridite, il che vuol dire il ritorno dei cittadini alla politica, la reinvenzione dei partiti o di altri strumenti di partecipazione e di intervento, l’attivazione di nuovi coinvolgimenti di classi e culture diverse, la creazione di laboratori, scuole e centri di formazione politica; vuol dire riconoscere che un ciclo si è chiuso ma solo perché se ne deve avviare uno nuovo; ma per questo occorre rimettersi in movimento, pensare cose non ancora pensate ma anche osare cose già pensate e non attuate. Non è vero infatti che in questi anni si sia fermata la riflessione, siano mancate l’analisi e le proposte di nuove prospettive politiche e costituzionali; basta pensare agli sviluppi della teoria del diritto e della democrazia di Luigi Ferrajoli, che già hanno avuto importanti influenze in America Latina. Si tratta di rifondare la democrazia, dare nuove regole al potere, dare nuovi diritti e compiti ai cittadini, sapendo, come diceva Dossetti alla fine della sua vita, che “la crisi globale nella quale siamo immersi non può guarirsi in pochi anni o con qualche trovata di qualche sistema elettorale, può guarirsi con un grande sforzo collettivo di rieducazione e di riattivazione di tutto il tessuto sociale, prima che dell’espressione politica”.
Questo è il significato, ma anche il programma d’azione, del nostro No nel referendum.
Fonte: Pagina Facebook dell'Autore
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