di Chiara Cruciati
Sono trascorsi quattro mesi da quando Giulio Regeni scomparve a poca distanza dal suo appartamento nel quartiere di Dokki, al Cairo, in una serata surreale: c’era silenzio nella capitale egiziana, blindata da polizia ed esercito mandati dal presidente golpista al-Sisi a impedire che il popolo ricordasse la sua rivoluzione. Giulio è sparito nel quinto anniversario di piazza Tahrir, nelle maglie della repressione di Stato, nome tra i nomi di desaparecidos dimenticati nell’oblio delle galere. A quattro mesi di distanza di verità non ce n’è l’ombra. Si sente parlare spesso di ragion di Stato, formuletta per coprire l’assenza di giustizia. Di Giulio parlano solo i cittadini. Non ne parlano i governi che dopo qualche screzio (solo così possono essere definite le labili misure prese da Roma e le reazioni stizzite del Cairo, alla luce dell’attuale apatia italiana) hanno chiuso il capitolo Regeni.
Chiudere il capitolo Regeni, però, significa anche chiudere la porta sulle sofferenze del popolo egiziano, schiavo di un regime brutale che neppure trent’anni di Mubarak sono mai riusciti ad imbastire.
Chiudere il capitolo Regeni, però, significa anche chiudere la porta sulle sofferenze del popolo egiziano, schiavo di un regime brutale che neppure trent’anni di Mubarak sono mai riusciti ad imbastire.
Eppure nulla è cambiato nelle pratiche del Ministero degli Interni e della presidenza: come schiacciasassi polizia e esercito continuano nella repressione. Gli ordini di detenzione contro simboli della società civile continuano ad essere prolungati senza che si giunga ad alcun processo: è il caso di Ahmed Abdallah, direttore della Commissione Egiziana dei Diritti e le Libertà, dietro le sbarre da oltre un mese; dei giovani di Aftal al-Shawarea (Bambini di Strada), gruppo satirico che ha spaventato il regime con la videocamera di un telefono cellulare; dei giornalisti Badr e el-Sakka e dell’avvocato Malek Adly.
E se ogni tanto una buona notizia sembra ricomparire dalle sabbie mobili dell’oppressione, l’entusiasmo ha vita breve: potrebbero restare in prigione i 47 manifestanti arrestati il 25 aprile e condannati a 5 anni di galera a cui martedì la corte di appello di Giza aveva cancellato la pena. Gli avvocati avevano chiesto la dilazione della multa da 11mila euro, 100mila sterline egiziane, a testa: un pagamento a rate, richiesta generalmente accettata dai tribunali egiziani. Ma non stavolta: o pagano tutto o resteranno altri due mesi dietro le sbarre.
Allora ci si auto-organizza: il partito nasseriano al-Karamah (“Dignità”) ha lanciato una campagna di raccolta fondi per trovare i soldi necessari a coprire le 470mila sterline egiziane che restituiranno la libertà ai 47 manifestanti.
Ma per ogni sfida che la società civile lancia al regime c’è chi para il colpo, un ricevitore internazionale che rispedisce indietro le minacce ad al-Sisi. È l’Europa dell’immunità, l’Europa che nel regime cariota vede il sostegno necessario nella “guerra al terrore” e in quella ai migranti. L’ultima denuncia la muove Amnesty International che ricorda a tutti che sull’Egitto vigerebbe un embargo europeo sulla vendita di armi.
Era stato imposto dopo i massacri di Rabaa al-Adweya e Nahda in cui furono uccisi quasi mille manifestanti, il 14 agosto 2013, un mese dopo il golpe che depose il presidente democraticamente eletto Morsi. Eppure i leader europei non nascondono affatto la montagna di accordi militari che continuano a stringere con Il Cairo. Basti pensare al presidente francese Hollande che un mese fa volava da al-Sisi mentre Roma richiamava l’ambasciatore per protesta: tra gli accordi siglati c’era la vendita di un sistema militare satellitare e navi da guerra dal valore di un miliardo di euro.
Metà degli Stati membri della Ue, 12 su 28, non hanno mai sospeso il trasferimento di armi all’Egitto, dice Amnesty: solo nel 2014 sono state autorizzate 290 licenze per l’esportazione di equipaggiamento militare (veicoli blindati, elicotteri, munizioni, pistole, armi pesanti, tecnologia di sorveglianza), per un totale di 6.77 miliardi di dollari. E seppure in prima fila ci sia la Bulgaria, sono i paesi più potenti a proseguire nel business congiunto: Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna.
«Fornire armi che probabilmente alimentano la repressione interna è contrario al Trattato di commercio delle armi [siglato nel dicembre 2014] di cui i paesi Ue sono membri», dice Brian Wood, capo della sezione sul controllo delle armi di Amnesty. In prima linea c’è l’Italia, la stessa che dovrebbe chiedere giustizia per Giulio: nel 2014 Roma ha autorizzato 21 licenze di vendita per quasi 34 milioni di euro; nel 2015 3.661 fucili da 4 milioni; quest’anno già 73mila euro in pistole e revolver. Senza dimenticare chi opera oltreoceano: gli Stati Uniti e la loro “paghetta” al Cairo, 1.3 miliardi di dollari in aiuti militari all’anno.
A rispondere ad Amnesty è il ministro degli Esteri egiziano Shoukry che, pur ammettendo di non averlo letto, definisce il rapporto «esagerato»: «Non ho visto il rapporto che attribuisce alla Ue la responsabilità di quello che avviene in Egitto. Quelle armi di cui Amnesty parla hanno significativamente contribuito alla sicurezza e alla difesa di forze armate e polizia».
Fonte: il manifesto
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