di Michele Bertelli
Il fumo sale rapido sui tetti dell’ospedale di Sica Sica, nel mezzo dell’altopiano boliviano, mentre un piccolo gruppo in camici bianchi e gonne polleras circonda il fuoco nel cortile. Accanto a un altarino con una Madonna circondata di fiori, Panchito, il direttore, getta nelle fiamme alcune tessere con sopra dipinti simboli diversi. “Questo è per la buona sorte, questo per la salute e questo per il denaro”, dice. Oggi infatti non è un giorno qualunque, ma l’ultimo per il gruppo di lavoro che ha gestito l’ospedale in questi mesi. E per Panchito è impensabile cominciarlo senza un sacrificio alla Pachamama, la madre terra. L’ospedale gestito da Panchito è un esempio di come la Bolivia stia cercando di affiancare le tradizioni ancestrali dei popoli indigeni alla medicina moderna. I medici kallawaya come lui hanno infatti attraversato le terre dell’altopiano per decenni, alla ricerca di erbe dalle proprietà curative.
“Porto sempre con me le mie piante medicinali,” spiega Panchito mentre prepara il feto essiccato di un piccolo lama da porgere nelle fiamme. “Le uso per le offerte, mentre chiamo le anime o leggo la sorte nelle foglie di coca”.
“Porto sempre con me le mie piante medicinali,” spiega Panchito mentre prepara il feto essiccato di un piccolo lama da porgere nelle fiamme. “Le uso per le offerte, mentre chiamo le anime o leggo la sorte nelle foglie di coca”.
Non è facile sintetizzare il mondo della medicina tradizionale indigena: ci sono erboristi, riparatori di ossa, ostetriche tradizionali e anche spiritisti, e ogni regione ha tradizioni diverse. Spesso la professione si trasmette di generazione in generazione: come nel caso di doña Leonarda, che è diventata ostetrica tradizionale seguendo la nonna, e anche di Panchito. A volte alcuni di loro sono convinti di essere stati destinati a svolgere questa missione: l’essere partoriti in piedi o colpiti da un fulmine in tenera età sono infatti segni della presenza di un dono soprannaturale.
“La medicina tradizionale raggruppa le conoscenze e le pratiche sviluppate dai nostri antenati,” spiega Alberto Camaqui, viceministro per la medicina tradizionale e l’intercultura presso il ministero della salute e dello sport boliviano. Secondo il censimento realizzato nel 2001, il 62 per cento della popolazione locale si identifica come indigena, e nel paese ci sono 36 diversi gruppi etnici, ognuno con i propri usi e costumi. Eppure solo con la nuova costituzione questi popoli e le loro tradizioni hanno ottenuto un riconoscimento ufficiale. Un particolare non secondario, se si pensa, come afferma Camaqui, che per buona parte di queste persone la medicina tradizionale è ancora la pratica sanitaria prevalente.
“Per chi non c’è abituato può sembrare uno scherzo, ma io vivo secondo la mia cosmovisione”, spiega Camaqui, “e la medicina tradizionale deve funzionare come complemento anche spirituale di quella moderna”. Anche perché proprio nelle regioni con più popolazione indigena si registrano i peggiori indicatori di accesso al sistema sanitario.
“Ci sono malattie, qui nell’altopiano, che i dottori delle città non sanno come curare”, dice Vitaliano Vasquez, che con la moglie Leonarda Quispe è parte del gruppo di medici tradizionali che operano nell’ospedale di Patacamaya, cittadina rurale sulla strada che collega La Paz, capitale governativa, a Potosí. Vitaliano mostra orgoglioso le decine di barattoli e flaconi sulla credenza del suo ambulatorio, tutti contenitori di erbe mediche locali.
Usando la sua voce come un oratore consumato, spiega la condizione del sobreparto, un malore legato al parto e molto diffuso tra le popolazioni di etnia aymara: “Alcune madri preferiscono partorire in casa perché hanno paura di prendere freddo”, dice, “dato che quando vanno negli ospedali dicono di non essere trattate con cura”. Chiunque nella zona andina descrive i sintomi del sobreparto come mal di testa, sudore, febbre, fatica e incapacità di svolgere compiti complessi. Purtroppo si tratta di un problema insuperabile, dato che la medicina moderna non la riconosce come una malattia specifica, e quindi intrinsecamente legato alla condizione e alla psicologia indigena.
L’idea alla base della creazione del dipartimento per la medicina tradizionale e l’intercultura voluto nel 2006 dal governo Morales è stata quindi quella di promuovere sia l’accesso al sistema sanitario nazionale sia il rispetto delle origini culturali. Nessuno meglio di Camaqui, che guida la struttura dal 2010, può capire questa esigenza. Il suo padrino era un medico tradizionale, e lui stesso fu iniziato alla pratica quando era ancora bambino: “Quando mi ammalavo, la prima cosa che faceva era invocare gli spiriti protettori”, dice.
Dottori tradizionali, parteras, erboristi e guide spirituali sono stati così riconosciuti legalmente nella legge 459, i cui decreti attuativi sono stati approvati a luglio 2015, stabilendo che si costituiscano come “risorse umane pronte a essere incorporate gradualmente all’interno del sistema sanitario nazionale”. Cliniche come quella di Panchito e di Patacamaya sono all’avanguardia in questo processo, che oggi conta però pochi esempi isolati.
In un paese dove il sistema sanitario è ancora in pieno sviluppo, la fiducia dei pazienti non è certo l’unico problema: spesso mancano attrezzature, specialisti e professionalità adatte a specifiche esigenze. Per questo motivo, dal 2006 Cuba ha inviato nel paese medici specializzandi, in segno di amicizia e cooperazione con il governo di Evo Morales. Alcuni di loro sono stati destinati a Patacamaya e sono oncologi oppure optometristi professionisti, ma trovano l’intercultura dell’ospedale una stranezza.
La scelta è del paziente
“La medicina tradizionale ha i suoi limiti, a volte si basa su credenze e tradizioni”, mi dice il dottor Mileta, che presta servizio nell’ospedale dal 2003, e per tre anni è stato anche coordinatore della rete sanitaria locale. All’epoca era appena arrivato dalle pianeggianti distese dell’oriente boliviano ed era molto scettico nei confronti della medicina tradizionale. C’è voluto tempo prima che cominciasse a lavorare insieme ai kallawaya locali, ma oggi crede che il loro apporto sia importante. “Certo, molte delle loro malattie sono psicologiche”, dice, “e quindi i farmaci tradizionali a volte funzionano come placebo, attenuando il problema. Ma questo per me è già un risultato”.
E così all’ospedale di Patacamaya è il paziente a scegliere a quale medico rivolgersi per primo. E nel caso non abbia pienamente fiducia nei camici bianchi, Vitaliano Vasquez lo aspetta nella stanza della medicina tradizionale. In questo momento sta visitando un contadino con un braccio rotto da più di un mese, e si prepara ad applicare un’ingessatura naturale. Sembra tutto pronto, ma quando sta per consegnare l’impasto arrivano i problemi: il paziente sembra non avere denaro sufficiente per poter pagare la medicazione. “Il punto è che noi non riceviamo alcuno stipendio per stare qui dalle 8 del mattino”, si lamenta Vitaliano. “Né il direttore, né l’ospedale, né il municipio ci danno nulla.”
Nonostante la legge 459 disponga infatti che il ministero della salute e dello sport e le istituzioni territoriali debbano finanziare la pratica e l’esercizio della medicina tradizionale, i progetti di salute interculturale sono definiti dal viceministro Camaqui come “dei bambini appena nati”, che finora si sono scontrati con una sostanziale mancanza di risorse interne. “Il nostro budget è minimo”, dice con aria quasi imbarazzata. “A volte è stato a malapena sufficiente per coprire le spese amministrative, i salari, l’affitto e l’elettricità”.
Finora questi programmi si sono sviluppati soprattutto grazie al supporto di ong come Medicos del mundo e della cooperazione straniera, andando a gettare sale su una ferita aperta dell’amministrazione Morales. È vero che sotto il presidente Morales la Bolivia ha fatto passi avanti nella lotta alla povertà e nel diritto all’istruzione, ma per quanto riguarda la salute e le questioni di genere il paese è ancora molto in basso nelle classifiche del World economic forum.
Per questo il governo ha appena annunciato il più grande investimento in sanità della storia del paese: 1,7 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni. Al centro del progetto c’è la costruzione di ospedali specialistici, ma Camaqui è convinto che anche il suo dipartimento (viceministerio) riceverà dei fondi per avere un ruolo più attivo.
Le fiamme hanno ormai completamente bruciato i resti del sacrificio alla Pachamama quando Panchito si appresta a vestire gli abituali panni da medico. Davanti a lui c’è una giornata come tante altre: controlli prenatali, vaccinazioni e visite dentistiche. La strada per il suo riconoscimento e quello dei suoi colleghi è ancora lunga e dipende in buona parte dalla loro capacità di fare pressione proprio sul governo. “Bisogna unire le due medicine, anche perché quella occidentale ha un costo elevato”, conclude prima di mettersi al lavoro. Un dato non da poco, in un paese dove nel 2014 il 39,3 per cento della popolazione viveva ancora sotto la soglia povertà.
Questo articolo è il terzo e ultimo del progetto Mother and children first realizzato daMichele Bertelli, Felix Lill e Javier Sauras, grazie al sostegno della fondazione Bill and Melinda Gates attraverso il bando pubblico Innovation in development reporting, gestito dallo European Journalism Centre.
Fonte: Internazionale
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