di Alfonso Gianni
E’ una Confindustria indebolita quella riunitasi all’Auditorium di Roma, sia da ragioni interne che da fattori esterni. Le prime restano confermate. La spaccatura trova nuova evidenza nel modo con cui viene eletto presidente l’imprenditore salernitano Vincenzo Boccia. Ottiene l’87% dei voti validi, che corrispondono però a solo il 66,7% dei votanti, includendo le 305 schede bianche. Non proprio un plebiscito. I secondi erano dovuti alla furia rottamatrice dei corpi intermedi della società avviata da Matteo Renzi, che non aveva risparmiato neppure l’organizzazione padronale, così tradizionalmente fedele. Si ricorderà lo schiaffo del viaggio a Melfi del presidente del consiglio snobbando l’assise confindustriale. A Boccia conveniva dunque battere un colpo per rianimare e riunificare le fila. Lo ha fatto, ma con la minor fantasia possibile.
Se la tradizione del “governo amico”, qualunque fosse, coltivata per decenni dai dirigenti di Viale dell’Astronomia ha cominciato a vacillare vistosamente, Boccia ha pensato bene di rovesciare il rapporto per ottenere lo stesso risultato.
Se la tradizione del “governo amico”, qualunque fosse, coltivata per decenni dai dirigenti di Viale dell’Astronomia ha cominciato a vacillare vistosamente, Boccia ha pensato bene di rovesciare il rapporto per ottenere lo stesso risultato.
Ecco dunque la versione della “Confindustria amica” che sceglie di accucciarsi al servizio di Renzi. Così facendo, dimostra anche di cogliere in qualche modo l’ansimare dell’uomo solo al comando, bisognoso di qualche aiutino in una temperie che vede più di un sondaggio voltargli le spalle. I diecimila comitati per il Sì sono per ora una boutade priva di seguito e comunque di spontaneo non hanno nulla, dal momento che devono essere sollecitati dall’alto a ogni piè sospinto. Al punto che anche la propaganda governativa batte in testa. Gli esaltatori della rottamazione ad ogni costo, dell’innovazione delle forme della “governamentalità”, del radicale ricambio generazionale stanno in realtà chiamando a supporto le figure più amate della prima Repubblica, distorcendo le loro posizioni e la loro storia per avvalorare le proprie.
Il nuovo presidente della Confindustria ha annusato che si apriva un nuovo spazio per la sua organizzazione e così ha infilato una strada già nota e per lui sicura, quella tracciata dal famoso documento della J.P. Morgan del giugno 2013 che raccomandava ai governi dei paesi del Sud d’Europa di ricorrere ad ogni mezzo per cambiare in fretta e furia le loro Costituzioni, affette da una «forte influenza di idee socialiste» e tali da limitare l’azione degli stessi governi. Quasi con le stesse parole Vincenzo Boccia battezza con entusiasmo la revisione renziana della nostra Costituzione: «La strada obbligata per liberare il Paese dai veti delle minoranze e dai particolarismi». Saluta poi come benvenuta la flessibilità “strappata” dal governo sui conti pubblici a condizione che non si esageri nell’allentamento della corda della spesa pubblica, altrimenti i mercati si arrabbiano. Infine ribatte il chiodo del nesso fra produttività e salari. Lo chiama scambio. Ma si tratta di uno scambio diseguale poiché i secondi devono stare al di sotto della prima, da attuare mediante la liquidazione del contratto nazionale e il primato di quello aziendale.
Essendo questi pronunciamenti in materia economica e contrattuale già abbondantemente noti e scontati, il piatto forte della giornata resta l’endorsement sulla “deforma” costituzionale, che sarà ratificato formalmente nel Consiglio generale del prossimo 23 giugno. Il che non deve né stupire né può particolarmente indignare. La mossa confindustriale rende il quadro più nitido. Aiuta a diradare fumogeni sparsi ad arte. Stringe, con l’evidenza dei comportamenti reali, con il peso delle scelte di classe – si sarebbe detto un tempo – quel nesso che poteva apparire solo teorico, o per alcuni persino forzato, fra interessi materiali in gioco e il disegno di profondo stravolgimento del sistema democratico costituito dal binomio revisione della Costituzione- nuova legge elettorale.
In questo quadro rivendicare una presunta neutralità delle organizzazioni sociali, sindacati come associazioni, è pura ipocrisia o colpevole ingenuità. Le stesse polemiche sui pronunciamenti dell’Anpi o dell’Arci rivelano tutta la loro pesante e volgare strumentalità. La cosa da fare è non perdere un minuto per intensificare nelle settimane che restano, con una straordinaria mobilitazione democratica, la raccolta delle firme per i referendum istituzionali, costituzionale e sociali, non a caso fin dall’inizio uniti in un’unica campagna referendaria, dal cui esito dipendono le sorti e gli assetti del nostro paese. Assai più che la sopravvivenza o meno di questo governo.
Fonte: il manifesto
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