di Tomaso Montanari
Firenze è un corpo fragile. Nel gennaio del 2012 venne giù un enorme blocco dalla storica Colonna della Dovizia, nella centralissima piazza della Repubblica: solo per miracolo non fu una strage. La patina dorata della città-vetrina coprì presto quelle macerie: e tutto fu dimenticato. Oggi lo spettacolare sfaldamento di un Lungarno, a un passo da Ponte Vecchio e di fronte agli Uffizi, innesca un ben più potente campanello d’allarme: basterà? La prima cura di cui le città storiche hanno bisogno è assicurare che al loro corpo fragile non manchi il sangue vivo: che sono i cittadini, i residenti stabili. Firenze, da questo cruciale punto di vista, è in caduta libera: mentre gli abitanti scendono vertiginosamente (dal record di 500mila siamo ora a 370mila), la monocultura del turismo scommette di portare la quota annuale dei visitatori fino al tetto fatidico dei venti milioni.
In questo quadro di declino civile e urbano, anche scelte come la pedonalizzazione di piazza del Duomo si sono rivelate dei fatali boomerang: perché, in assenza di una pianificazione adeguata del trasporto pubblico, hanno di fatto desertificato un’altra porzione cruciale della Firenze monumentale.
In questo quadro di declino civile e urbano, anche scelte come la pedonalizzazione di piazza del Duomo si sono rivelate dei fatali boomerang: perché, in assenza di una pianificazione adeguata del trasporto pubblico, hanno di fatto desertificato un’altra porzione cruciale della Firenze monumentale.
Qualche settimana fa, su un Lungarno non lontano dal crollo, è comparsa una grande scritta: «No gentrification». Fa una certa impressione che una difficile parola della sociologia urbana (che indica appunto la disneyficazione delle città, con relativa espulsione dei residenti) diventi una bandiera della comunicazione dal basso. È la città dei fiorentini a parlare: quella che teme di finire come Venezia, che è ormai una meravigliosa quinta disabitata.
Come nella Venezia del Mose, anche a Firenze ci si illude di supplire alla mancanza di manutenzione ordinaria attraverso le Grandi Opere: aggiungendo così danno a danno, pericolo a pericolo. Torna in questi giorni attuale la dissennata idea di scavare l’ennesimo, inutile parcheggio sotterraneo in piazza Brunelleschi: cioè a due passi dalla fragile Cupola del Duomo. Ma c’è di peggio: incombe il progetto di sventrare il centro storico per interrare la rete della tranvia, e non si è ancora abbandonato il dispendiosissimo, antiquato e potenzialmente fatale sottoattraversamento Tav della città ottocentesca e delle sue falde acquifere.
Non basta: è prossimo l’ampliamento di un aeroporto che rimarrà comunque da operetta (l’unica scelta sensata era raddoppiare quello di Pisa, e creare una navetta veloce come in una qualunque metropoli occidentale), ma sconvolgerà l’equilibrio idrogeologico della piana fiorentina. Le immagini del Lungarno Torrigiani sventrato sono un monito contro tutto ciò: nessuno potrà più dire che non sapeva quanto il corpo di Firenze sia fragile, delicato, esposto.
Più in generale, invece di continuare a massacrare il tessuto dei nostri centri storici, dobbiamo ricominciare a prendercene cura. Amiamo le nostre città perché la loro bellezza è stata plasmata da una lunga storia: ma quella stessa storia ha prodotto cicatrici, debolezze, pericoli che non possiamo ignorare.
È difficile tenerlo a mente in un’epoca che rimuove i segni del passaggio del tempo dai corpi vivi delle donne e degli uomini, e anche dai corpi (non meno vivi) delle opere d’arte più celebri, condannate ad un continuo, terribile lifting che ambisce a cancellare la storia e troppo spesso ci restituisce una bellezza astratta, disumana, inutile. È difficile perfino saperlo, in un Paese dove invece di muoverci noi alla scoperta delle nostre mille città storiche, preferiamo “movimentare” ogni anno 25.000 tra reperti archeologici e opere antiche e moderne per alimentare un’insensata industria delle mostre. È difficile riconoscerlo di fronte a una politica che rottama le soprintendenze, sradica i grandi musei dal territorio e usa i centri storici come location.
Siamo pronti a usare il Colosseo come un palasport, a far suonare Elton John nel teatro di Pompei, a coprire l’Arena di Verona come un auditorium: consumare, valorizzare, sfruttare sembrano le uniche parole d’ordine. Ci sentiamo gli utilizzatori finali di un patrimonio millenario. Sia chiaro: le città sono fatte per essere vissute, e non dobbiamo scegliere tra passato e futuro. Il punto, però, è costruire un futuro sostenibile, riprendendo ad investire sulla manutenzione ordinaria e sul governo del territorio.
Già nel 1955 Leo Longanesi scriveva che «alla manutenzione l’Italia preferisce l’inaugurazione», e uno storico dell’arte come Giovanni Urbani - il quale concepiva invece il restauro come una conservazione generale dell’ecosistema di ambiente e arte, fondata su una manutenzione programmata - dovette dimettersi dalla direzione dell’Istituto Centrale del Restauro per la completa sordità della politica. Gli amministratori sanno che la gestione ordinaria non dà visibilità, gloria mediatica, ritorno di consenso: e dunque spingono sul pedale degli eventi, delle grandi opere o dei restauri ad effetto.
Dobbiamo guarire da questa cecità. Se vogliamo dare un senso a quella ferita nel cuore di Firenze dobbiamo riacquistare una dedizione quotidiana alla salute delle nostre città: in fondo è proprio così che è nata, lentamente, la loro bellezza. Una bellezza di cui siamo custodi, non padroni.
Fonte: La Repubblica
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