di Tania Careddu
In Italia ne sono stati attivati quattro con la finalità di identificare, registrare e rilevare le impronte digitali dei migranti sbarcati sulle coste, ma gli hotspot, centri previsti dall’Agenzia europea delle Migrazioni per la gestione delle frontiere esterne all’Unione europea, sono privi di una cornice giuridica. Questo perché nessun atto normativo, né italiano né europeo, disciplina quanto avviene al loro interno. L’unica normativa di riferimento resta la Legge Puglia del 1995, che regolamenta però solo le operazioni di primo soccorso e di accoglienza. L’unico documento cui fare capo è, perciò, la Roadmap, una tabella di marcia con il compito di chiarire il flusso organizzativo, di carattere specificamente politico, senza valore normativo. Sempre più spesso, in Italia, a determinare l’effettivo status giuridico dei migranti non sono leggi ma circolari della Pubblica Amministrazione.
E, sebbene i dati presentati dai report periodici dell’Unione europea indichino un successo nel controllo degli stranieri in entrata, con un incremento dei valori percentuali dal 36 all’87 per cento in seguito all’applicazione dell’approccio hotspot, all’aumento delle identificazioni non ha corrisposto un’effettiva redistribuzione di persone verso altri paesi.
L’obiettivo dell’orientamento hotspot non può prescindere dalla distinzione (superflua e superficiale) tra richiedenti asilo e migranti irregolari: un’operazione che, effettuata ai valichi di frontiera attraverso sommarie interviste, è espletata dalla Polizia di Stato, alla quale, invece, la legge attribuisce solo il compito di ‘ricezione’ delle domande d’asilo. E non anche quella delicata di decidere, spettante alle Commissioni territoriali che possono vagliare la storia del singolo, lo status giuridico del migrante e la sua possibilità di accedere alla richiesta di protezione internazionale.
Ma al confine è tutto molto veloce, dura il tempo di una firma sul foglio-notizie che riporta i dati anagrafici degli stranieri nella fase di pre-registrazione ma che, spesso, è l’anticamera del decreto di respingimento, pur avendo loro fatto domanda d’asilo e senza aver capito nulla di quanto è accaduto e nemmeno essere entrati in contatto con nessuno che li abbia informati sui diritti di cui potevano godere in Italia.
Moltissimi respingimenti hanno coinvolto gruppi di persone, senza alcuna valutazione delle situazioni individuali e i decreti del caso, emessi dalle questure, sono stati scritti su moduli prestampati tutti identici, in palese violazione della legge anche per il fatto che sono basati su presunte dichiarazioni delle quali non esiste copia in mano al diretto interessato.
Tutto è condotto secondo una prassi spontanea, al netto di una regolamentazione legale: le interviste vengono effettuate oltre che in un momento poco opportuno per i migranti, appena arrivati, in condizioni di pesante stress fisico e psichico, anche in un setting non certo adeguato alla vulnerabilità in cui versano; mancano, nelle procedure hotspot, nonostante la Corte di Cassazione abbia ribadito il dovere della Pubblica Amministrazione di renderli edotti, uno spazio e un tempo specificamente dedicati all’attività di informativa legale. Da cui dipende, però, il loro futuro.
Al momento, secondo quanto si legge nel dossier Hotspot, il diritto negato, redatto da Oxfam, all’interno degli hotspot, il presente riserva trattamenti inumani di trattenimento e coercizione. Quelli irregolari non sono i migranti.
Fonte: Altrenotizie
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