di Luca Tancredi Barone
È passato un anno dal giorno in cui i «sindaci del cambiamento» hanno conquistato il potere in moltissimi comuni spagnoli. E non è stato solo un cambio di nomi o di sigle politiche. Si è trattato della fine di un ciclo, di un’era politica che si è chiusa e ha aperto le porte a una stagione nuova, che a livello nazionale forse si consoliderà dopo le elezioni del 26 giugno. Il voto del 24 maggio 2015 ha rappresentato una piccola rivoluzione a livello municipale. Sono due le figure emblematiche di questo cambiamento. Due donne, due generazioni diverse. Manuela Carmena, ex giudice in pensione, che è diventata sindaca di Madrid, strappando la città, dopo più di 20 anni, ai popolari.
E Ada Colau, l’incarnazione delle lotte sociali più importanti di questi anni di crisi: per il diritto alla casa, contro lo strapotere delle banche che hanno gonfiato la bolla immobiliare, contro una legge ingiusta che non cancella il debito di chi non può pagare il mutuo e riconsegna gli appartamenti requisiti alle entità finanziarie.
Due mesi dopo quelle storiche elezioni in cui le piazze sono entrate nella stanza dei bottoni, è proprio la figura di Colau la più paradigmatica di questo cambiamento.
E Ada Colau, l’incarnazione delle lotte sociali più importanti di questi anni di crisi: per il diritto alla casa, contro lo strapotere delle banche che hanno gonfiato la bolla immobiliare, contro una legge ingiusta che non cancella il debito di chi non può pagare il mutuo e riconsegna gli appartamenti requisiti alle entità finanziarie.
Due mesi dopo quelle storiche elezioni in cui le piazze sono entrate nella stanza dei bottoni, è proprio la figura di Colau la più paradigmatica di questo cambiamento.
Non è un caso che nella stessa settimana escano due documenti straordinari a lei dedicati. Un libro scritto dallo storico Steven Forti e dal giornalista Giacomo Russo Spena: Ada Colau, la città in comune (Edizioni Alegre 2016, 14 euro). E un documentario, da venerdì nelle sale catalane, dell’artista visuale Pau Faus: La Sindaca (Alcaldessa, in catalano), una cronaca, a volte molto intima, dell’anno che l’ha portata a diventare sindaca della seconda città spagnola.
Queste due riflessioni, che analizzano l’eccezionale fenomeno politico e umano che Ada Colau incarna, hanno il merito di fare un passo indietro rispetto alla cronaca quotidiana e alle spesso strumentali polemiche che perseguono lei e la sua giunta. Il documentario racconta, seguendola passo passo, come una brillante attivista, fondatrice della Piattaforma vittime del mutuo (Pah), con ottime doti di comunicazione e di leadership (benché confessi un’infanzia di timidezza), decida di fare il salto nel mondo ostile della politica istituzionale e riesca a far confluire anime della sinistra molto diverse fra loro. Il libro di Forti e Russo Spena dipinge un grande affresco che cerca di spiegare la straordinarietà della figura politica di Colau e il contesto in cui si inserisce: una città con un passato anarchico, popolare, di importanti movimenti cittadini.
Nella lunga intervista con cui inizia il libro, Colau traccia un ritratto di se stessa e delle sfide che affronta. Parla del suo governo in forte minoranza – solo 11 consiglieri su 41; a Madrid Carmena, in giunta con i socialisti, per esempio gode di una comoda maggioranza – senza però mai dimenticare il progetto sociale plurale e le piazze che rappresenta.
È il suo stile, la sua empatia, ma anche la sua determinazione e la fermezza dei suoi principi, che permette a Colau di mantenere tutta la carica simbolica, senza perdere il contatto con la realtà. E con candida franchezza riconosce le difficoltà, l’eccessiva lentezza, i limiti di competenze sui grandi temi sociali. «Siamo un movimento in costruzione», rivendica a fronte della contraddizione fra democrazia rappresentativa e movimentismo. La forza dell’alcaldesa sta nel riuscire a portare la sua umanità, i suoi dubbi e le sue contraddizioni nei palazzi del potere. È emozionata e ferma, quando da sindaca deve affrontare per la prima volte le banche. Si emoziona nel documentario quando racconta che è difficile coniugare la femminilizzazione del potere che difende, con l’esigenza di essere punto di riferimento saldo.
Ada Colau, la città in comune ha anche un altro grande pregio. Quello di approfondire gli elementi storici, politici e sociali che fanno di Barcellona e del movimento di Colau Barcelona en comú, l’avanguardia di un cambiamento politico da cui Podemos dovrebbe imparare. Se è vero che la città catalana ha una storia e una cultura movimentista unica nel panorama spagnolo, Barcelona en comú ha saputo agglutinare sensibilità diverse su una piattaforma comune basata sulla volontà di rompere il muro che divide le classi popolari da chi governa.
Il mandato di Colau è stato faticoso, politicamente e fisicamente. Undici persone per far andare avanti tutta la macchina (la giunta, il consiglio comunale, i 10 distretti cittadini) sono davvero poche in una città grande e complessa come Barcellona. E l’ostilità dei mezzi di comunicazione è stata fin da subito evidente. L’entrata – che proprio ieri è stata ufficializzata – dei quattro consiglieri socialisti in giunta darà un po’ di respiro, ma ha anche suscitato una levata di scudi fra i militanti – un terzo dei quali ha votato No all’accordo. Sono diminuiti i conflitti con le realtà sociali in città. Ma lo sgombero lunedì del Banc Expropriat nel quartiere di Gràcia da parte della polizia catalana (non comunale) e gli scontri con i Mossos che ne sono sorti sono la spia che la giunta Colau non può da sola risolvere qualsiasi conflitto. Anche se in questo caso il comune c’entra poco, e si è offerto di trovare spazi alternativi. Semmai è stato sorprendente scoprire che la precedente giunta di destra aveva pagato di nascosto al proprietario del locale sgomberato l’affitto di un anno per evitare polemiche subito prima delle elezioni.
Barcelona en comú rivendica misure emblematiche, come i 100 milioni di stanziamento comunale per le politiche sociali, la costruzione di asili, le politiche contro la povertà, soprattutto femminile, le politiche sociali sulla casa, la costruzione di infrastrutture di trasporti pubblici, il portale partecipativo Decidim Barcelona, la trasparenza amministrativa e il codice etico, le politiche per regolamentare il turismo, la trasformazione di Barcellona in città rifugio per chi scappa dalle guerre e delle miserie. Ma governare in minoranza («guidare un transatlantico», dice uno degli intervistati nel libro), toccare interessi importanti, cercare di imporre un nuovo framing politico («stiamo costruendo una relazione differente tra il pubblico e il privato», spiega una assessora agli autori del libro) non è facile. Le polemiche – le ultime per esempio sulla guardia urbana, che si sente poco tutelata, mentre i venditori ambulanti reclamano minore aggressività – spesso nascondono sforzi titanici di cambiare le dinamiche cittadine. «Non lasciateci soli», aveva chiesto Colau il giorno dell’investitura scendendo fra la folla (non l’aveva mai fatto nessun sindaco).
Quella attivista, salita alle ribalte nazionali quando, come portavoce della Pah, in pieno parlamento di Madrid, emozionata e indignata aveva chiamato «delinquente» il rappresentante della banca, oggi occupa le stanze del potere. Nelle ultime scene dell’Alcaldessa, con inquadrature di grandi sale vuote, il regista sembra ammonirla a non perdere il contatto con la società.
Forti e Russo Spena ci raccontano che per ora non è accaduto. E che se Colau rimane all’altezza del processo che l’ha portata a essere la prima sindaca di Barcellona, probabilmente non succederà.
Fonte: il manifesto
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