di Stefania Divertito
Meno potere militare sulle vite dei soldati e una parziale, troppo timida, e decisamente tardiva apertura della ministra della Difesa Roberta Pinotti. Una giornata importante, quella di ieri, per la vicenda uranio impoverito: da 16 anni le famiglie delle vittime stavano aspettando che lo Stato finalmente agisse. E ieri, qualcosa è stato raccolto grazie al lavoro della Commissione d’inchiesta alla Camera che ha visto lavorare insieme Pd, Sel e M5S e approvare con il voto quasi unanime (tranne quello del deputato Pili) la relazione intermedia firmata dal presidente Scanu. Un passo importante, importantissimo quello segnato dalla relazione, che toglie all’amministrazione della Difesa la gestione delle cause di servizio e del riconoscimento del nesso causa effetto tra uranio impoverito e malattie.
Non solo: le tabelle previdenziali Inail – che addirittura già dal 2008 contemplavano risarcimenti per malattie professionali dovute all’uranio impoverito in ambiente civile – saranno riviste per la nuova tipologia di utente. Certezza degli indennizzi e velocità delle pratiche. Un miraggio per le centinaia di famiglie strette nella morsa della burocrazia e delle lungaggini dell’amministrazione militare. Oltre che sottoposte a un giudizio che poteva essere di parte.
Sono 333 i soldati morti, più di 3mila gli ammalati e circa 40 le cause giudiziarie chiuse con sentenze di condanna per lo Stato.
Sentenze quasi sempre impugnate dall’avvocatura, che chiede la sospensione dei pagamenti, anche se alla fine deve pagare. Sommando ai risarcimenti gli interessi maturati, con un notevole aggravio per lo Stato.
L’ultima sentenza, arrivata proprio una settimana fa, è stata rivoluzionaria: laDifesa è stata condannata per omicidio colposo e a un risarcimento di 1,8 milioni di euro. In sostanza non avrebbe fornito le dovute precauzioni al soldato Salvatore Vacca, di anni 23, che nel settembre 1999 tornando dalla missione in Bosnia si è ammalato ed è morto nel giro di pochi mesi. Ha impiegato 16 anni mamma Giuseppina per ottenere questa sentenza. «Nulla mi restituirà mio figlio – ha detto – ma giustizia è stata fatta».
La relazione della Commissione ha trovato il parere favorevole dell’Osservatorio militare, che parla di pietra miliare. Meno unanimi sono i giudizi sulla relazione tenuta dalla ministra della Difesa Pinotti ieri mattina in Commissione. Chi si aspettava un mea culpa, un passo indietro rispetto alle sue recenti dichiarazioni tv in cui sosteneva che «l’uranio impoverito non è un problema», è rimasto deluso. «Non posso fare mea culpa per eventi che sono avvenuti quando non ero ministro», ha detto. Suscitando le reazioni del deputato M5S Gianluca Rizzo: «Ricordiamo alla ministra che Obama ha recentemente chiesto scusa per le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Quindi il suo ragionamento non sta in piedi».
Pinotti però ha provato a spingersi oltre. E ha promesso il suo impegno per ridurre quel girone infernale della burocrazia nella quale finiscono le famiglie delle vittime. Distrutte dal dolore, impoverite da anni di malattie costose da gestire, devastate dal dover combattere anche con l’amministrazione della Difesa.
Ebbene il ministro riferendosi alla sentenza della famiglia Vacca ha prima promesso che non si appellerà in Cassazione: «Questa vicenda deve chiudersi qui. È una questione di dignità», ha detto.
Poi però ha precisato: «Io farò tutto il possibile, ma è l’Avvocatura dello Stato ad avere l’ultima parola». Come dire: sono i tecnici che comandano. Frase che ha scatenato le reazioni dei parlamentari-commissari. Domenico Leggiero dell’Osservatorio Militare, pur sottolineando l’apertura del ministro, «un fatto inedito, che aspettavamo da 16 anni», specifica anche che «in molti casi l’avvocatura dello Stato ha suggerito di non appellarsi, perché sarebbe arrivata un’altra sentenza avversa». Il ministero però ha sempre fatto di tutto per procrastinare i tempi dei pagamenti e per allungare le vicende giudiziarie.
La speranza è che davvero, al di là delle frasi in politichese, ci sia la volontà di cambiare verso.
Fonte: il manifesto
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