Intervista a Joan Subirats di Giacomo Russo Spena
“Un cambiamento epocale, il colpo di grazia al bipartitismo spagnolo”. Senza grossi dubbi né giri di parole. Per Joan Subirats, illustre politologo fondatore dell’Instituto de Gobierno y de Políticas Públicas (IGOP) e docente universitario all’università Autonoma di Barcellona, il sorpasso di Podemos sul PSOE rappresenterebbe uno tsunami politico alle prossime elezioni nazionali del 26 giugno. La conferma che nel Paese sta soffiando quel vento del cambio reso possibile dalla protesta degli Indignados, un movimento che ha fatto da spartiacque e ha politicizzato la crisi iberica individuando i responsabili della crisi economica e morale: banchieri e politici. L’establishment finanziario. La Casta. “Dal 2011 al 2013 - ci dice - vi è stato un grande ciclo di mobilitazioni che hanno evidenziato come i due storici partiti, PP e PSOE, stessero applicando la stessa politica, quella che si decide in Europa, e dunque l’inesistenza di un vero dibattito nel conflitto destra-sinistra.
Lo slogan delle piazze era non a caso PP-PSOE, la misma mierda son”. Ma la conversazione con Subirats si sofferma anche sulla sua Barcellona dove sta sostenendol’esperienza della sindaca Ada Colau, l’ex occupante di case divenuta prima cittadina lo scorso 24 maggio 2015. Un dialogo con continui riferimenti all’Italia, tra la questione dei beni comuni e le somiglianze/divergenze col M5S.
Lo slogan delle piazze era non a caso PP-PSOE, la misma mierda son”. Ma la conversazione con Subirats si sofferma anche sulla sua Barcellona dove sta sostenendol’esperienza della sindaca Ada Colau, l’ex occupante di case divenuta prima cittadina lo scorso 24 maggio 2015. Un dialogo con continui riferimenti all’Italia, tra la questione dei beni comuni e le somiglianze/divergenze col M5S.
Professore, dopo mesi di impasse la Spagna ritorna alle urne. Quale scenario prevede per le elezioni del 26 giugno?
"Molto dipenderà dalla configurazione finale del Congresso dei Deputati. Ora sembra possibile che l’alleanza tra Podemos e Izquierda Unida possa superare il PSOE. Sarà decisivo il risultato della somma di PP e Ciudadanos da una parte e delle sinistre e del PSOE dall’altra. Se uno di questi due blocchi supera i 170 deputati, ci potrebbe essere la possibilità di formare un governo. Non è ancora chiaro che posizione assumerà Ciudadanos: potrebbe condizionare il suo appoggio al PP chiedendo la rinuncia di Rajoy o porre delle condizioni al PSOE per formare il governo o votare a favore di un governo presieduto da Pablo Iglesias. È molto difficile prevedere quel che succederà. È probabile che alla fine si costituisca un governo con un mandato concreto per una riforma costituente e di durata breve, ma tutto dipende dai risultati del 26 giugno."
Podemos si è sempre caratterizzato per il suo nuovismo andando contro la vecchia politica. Invece alle prossime elezioni ha scelto di allearsi con la sinistra radicale di Izquierda Unida (IU). Cosa implicherà questo accordo?
"La possibilità di superare in voti il PSOE. Si tratta di un cambiamento molto importante nel panorama politico spagnolo che dal 1979 si è retto sul bipartitismo. E, soprattutto, permetterà che si ottengano più deputati nei collegi dove, per la legge elettorale, erano sempre i due grandi partiti ad essere favoriti e IU non aveva mai ottenuto una rappresentazione proporzionale al numero dei suoi voti."
Passiamo a Barcellona. Qui una lista nata dal basso, e sconosciuta ai più, è riuscita a vincere le elezioni locali. Come è stato possibile?
"Con la crisi economica, nella città si è palesato un importante livello di conflitto sociale. La Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH) - movimento che lotta contro gli sfratti, da cui proviene la sindaca Ada Colau - aveva sviluppato al meglio l’idea di articolazione nei quartieri del 15M tramite una lotta concreta e creando una struttura solida. La PAH rompe la logica tipica di delega e rappresentazione. Le persone non trovavano lì degli esperti per risolvere i loro problemi, ma trovavano persone con gli stessi problemi che dicevano loro: “soltanto lottando insieme a noi c´è soluzione”. La conclusione è stata l’empowerment e l’attivismo delle persone. Un nuovo protagonismo civico. E poi si è deciso di ripartire dal locale, dall’entità più prossima alla vita dei cittadini."
Senza il ruolo degli Indignados sarebbe stata possibile la vittoria?
"No, assolutamente. Sia Podemos che Barcelona en Comú sono figli del 15M. Gli Indignados, più che un movimento, rappresentano una nuova filosofia, una scuola del cambiamento. Una rottura col passato e con l’agire politico della vecchia politica. Nelle piazze si evidenzia un problema di deficit democratico, di mancanza di rappresentatività e di assenza di prospettive per molti giovani."
Si tratta anche di una rivoluzione culturale all’interno dei movimenti: a Barcellona si esce dalla logica minoritaria e si costruisce una narrazione egemonica nella società.
"Venivamo anche da tre anni di conflitto costante in cui si è fatto di tutto: manifestazioni, raccolta di firme per cambiare le leggi, ecc. Ci hanno lanciato una sfida: “se volete cambiare le cose, presentatevi alle elezioni”. L’abbiamo fatto e abbiamo vinto. Esisteva un grande spazio che nessuno rappresentava. C’era la sensazione che molta gente avesse smesso di partecipare alla politica. L’idea del “non rappresentano nessuno” e del “dobbiamo recuperare le istituzioni” era molto forte. Quando abbiamo lanciato il manifesto di Guanyem Barcelona a giugno del 2014 ci siamo dati fino a settembre per raccogliere 30mila firme. Il 15 agosto le avevamo già. E in quelle settimane abbiamo organizzato incontri in tutti i quartieri di Barcellona con centinaia di persone. Spiegavamo che non si trattava di un accordo tra élites, ma che era la gente che voleva cambiare le cose."
Quali sono gli altri segreti del successo di Barcelona en Comú?
"Barcellona ha sicuramente una sua peculiarità dovuta al movimiento vecinal: dagli anni del franchismo è stata movimentata da comitati di quartiere e da un forte associazionismo. Poi il voto a Barcelona en Comú è un voto popolare, nei quartieri più degradati si ottengono i risultati maggiori, oltre a trovare consensi nell’astensionismo storico. Nelle precedenti elezioni comunali del 2011 aveva votato solo il 52 per cento delle persone. Nei quartieri più poveri l’astensione era arrivata fino al 70, mentre in quelli più ricchi era solo del 20. Nel maggio del 2015 la partecipazione aumenta di quasi il 10 per cento ma in alcuni quartieri, come quelli popolari, cresce in maniera esponenziale."
I movimenti si sono posti il problema di democratizzare le istituzioni. Ma ora che Ada Colau è sindaca, non c’è il rischio di un cortocircuito? Una cosa è scendere in piazza e organizzare il conflitto sociale, un’altra gestire le problematiche dal governo…
"È uno dei grandi pericoli, ma si è coscienti di questo. Ogni mese Ada Colau va in un quartiere di Barcellona e partecipa a un’assemblea aperta con la gente per evitare due problemi: la rappresentazione e il group-thinking, ossia il fatto che un politico si circonda di persone che gli filtrano ciò che non vuole sentire. Per evitarlo è necessario il contatto diretto. E a livello locale è possibile. Inoltre, il cambio tecnologico permette di ricevere molti segnali che prima erano filtrati dai mezzi di comunicazione. Ora ci sono facebook, twitter, telegram… Una delle grandi differenze tra i partiti tradizionali e Barcelona en Comú è che i primi si sono dovuti adattare alla nuova realtà della Rete e hanno assunto dei community managers, mentre dentro Barcelona en Comú sono tutti community managers."
Barcelona en Comú nasce dai movimenti ma, in una seconda fase, ha aperto a Podemos ed altre sigle della sinistra. I partiti hanno accettato un ruolo secondario?
"Sì, però bisogna distinguere tra i vari partiti. Podemos è una specie di partito-franchising. Non è un partito tradizionale come ICV-EUiA che ha governato per molti anni a Barcellona con i socialisti. Improvvisamente, gli hanno detto: “se vuoi unirti, devi accettare che saremo un fenomeno di rottura”. Si è deciso di rompere anche con la forma tradizionale di fare politica dei partiti di sinistra. E infatti ICV-EUiA ha dovuto cambiare la sua direzione dove ora ci sono dei giovani."
Quest’esperienza si può catalogare come neomunicipalista?
"L’ambito locale è sempre più importante perché tocca la qualità di vita delle persone. Le città-Stato possono essere un elemento importante per articolare capacità di governo a livello territoriale che sappiano relazionarsi con grandi questioni globali. L’agenda comunale è molto più vasta che in passato. Ma il neomunicipalismo è anche la capacità di articolare una relazione differente tra il pubblico e l’istituzionale. Il pubblico non si esaurisce nell’istituzionale. Il comune non è solo il Comune."
Quali sono le differenze e le analogie tra Barcelona en Comú e il Movimento 5 Stelle?
"Entrambe sono una forza di rottura rispetto allo status quo politico: non accettano le forme convenzionali di fare politica tipiche del Novecento, cercano la loro forza nelle basi popolari e usano intensamente le reti sociali. Le differenze invece sono di tipo politico e ideologico. Barcelona en Comú si situa chiaramente nel campo della sinistra trasformatrice e legata strettamente ai movimenti sociali propri dell’alterglobalizzazione, la lotta contro i tagli al welfare state, contro la xenofobia, il movimento free culture e open access e contro gli sfratti. Nel caso del M5S mi sembra ci siano molte differenze da una città o una regione all’altra e poca chiarezza su questioni fondamentali come sicurezza e immigrazione, con derive che considero pericolose."
In Italia è esportabile il modello di neomunicipalismo?
"Credo sia molto difficile che possa funzionare in Italia perché nella sinistra è tutto molto bloccato e, come spiegavo prima, non è chiara la posizione dei Cinque Stelle su tante cose."
Barcelona en Comú ha mai guardato al modello italiano? Se pensiamo alla teoria dei commons o al referendum per l’acqua pubblica…
"Sono stati un modello di riferimento, come lo sono stati anche Toni Negri, Elinor Ostrom o Yochai Benkler. Una delle correnti interne a Barcelona en Comúproviene da UniNomade. Ma pensate anche al nome di Guanyem, ossia “Conquistiamo” in catalano. È molto diverso dai movimenti che esistevano prima che si chiamavano “Salviamo” o “Lottiamo”. In noi, da subito, c’è l’ambizione di vincere le elezioni lavorando sul terreno dell’alternativa."
Alla fine avete scartato il nome di Guanyem e virato verso Barcelona en Comú, come mai?
"Ironia della sorte, il nome Guanyem Barcelona era già stato registrato e quindi è nato un dibattito interno sul come potevamo chiamarci. Si sono valutate varie possibilità (Primavera Democratica, Rivoluzione Democratica…), ma poi abbiamo scelto Barcelona en Comú. È un nome che ci rappresenta bene perché siamo un movimento cittadino, non siamo un’istituzione e ci preoccupa il futuro di Barcellona. Si lega all’idea di Ostrom del pubblico che non si esaurisce nell’istituzionale."
A quali altre esperienze guarda Barcelona en Comú?
"Agli zapatisti con l’idea di “camminare domandando”. Ma molte altre. Anche il populismo di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe. Sono dei riferimenti. Credo che ci sia una crisi dei paradigmi tradizionali e la ricerca di nuovi. La trasformazione è collettiva e sociale, lo Stato può essere uno strumento, ma non possiamo avere fiducia solo nello Stato. Ci sono molti elementi che confluiscono in questo nuovo spazio."
Come riflette il neomunicipalismo rispetto all’Unione Europea?
"Si è cercato di creare una rete di città, come nel caso delle “città rifugio”. Si guarda con molto interesse alle questioni della nuova agenda municipale: la moneta locale di Bristol, Nantes e Toulouse, il progetto di rimunicipalizzazione dell’acqua di Parigi e Napoli, ecc. I riferimenti europei a livello locale sono molto importanti. In Spagna si è creata una rete di “città ribelli” con Barcellona, Madrid, Saragozza, Cadice, Santiago de Compostela, La Coruña… Quattro delle cinque città più importanti della Spagna sono governate da sindaci che non sono dei due grandi partiti, il PP e il PSOE, e hanno contatti tra di loro. Inizia ad esserci un’importante capacità di articolazione."
Che ruolo ha avuto Ada Colau?
"La gente quando andava a votare chiedeva la scheda della “ragazza che blocca gli sfratti”. Se cerchi un 40% della popolazione che non è mai andata a votare o che è da tempo che non vota, devi rendere facile l’identificazione. Bisogna rompere il problema della sinistra con il personalismo. Ada non spiega tutto, ma ha un peso importante. Tutta una serie di processi frammentati – la sanità, la scuola, i quartieri, gli sfratti, ecc. – ha bisogno di un contenitore comune, qualcuno che li articoli e che simbolizzi tutto questo. Quando lo trovi, come nel caso di Ada, è fantastico perché riduce questa complessità. La semplifica. È qualcuno che può identificare molti aspetti diversi."
Ma il leaderismo può convertirsi in un problema per il “dopo” perché genera una specie di piramide?
"Credo che questa questione non sia ancora risolta. Non è ancora chiaro, anche dal punto di vista teorico, come si può trasportare l’idea della nuova politica a una nuova organizzazione politica. Nel caso di Podemos abbiamo una contraddizione: una struttura molto orizzontale, democratica e trasversale è anche molto autoritaria nella leadership. In Barcelona en Comú è meno problematico perché la struttura di base è molto più forte. Abbiamo 28 gruppi di settore e 20 gruppi di quartiere."
Secondo lei Ada Colau è una leader populista nell’accezione dei varicaudillos latinoamericani?
"Durkheim disse che il socialismo è il grido di dolore della società moderna. McCormick dice che il populismo è il grido di dolore della società contemporanea. Ossia, ciò che rompe con la struttura di alleanza tra le élites e ciò che rompe con l’idea mainstream del “tutti siamo d’accordo riguardo a quello che bisogna fare”. In questo senso, Ada Colau è populista. Se intendiamo per populismo invece una forma di demagogia, in questo senso non lo è."
Fonte: MicroMega online
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