di Nadia Urbinati
L'appello che lancia Francesco Ronchi nella sua lettera a Repubblica non può non colpire. Viaggiando per l’Emilia oppressa dalla calura estiva, Ronchi ha avvertito una cappa di disagio sociale e politico nei paesi dove la crisi della sinistra è ormai un declino cronico. Una crisi che si manifesta con l’altissimo astensionismo elettorale, una crescita innegabile di consenso alla Lega, una visibile insofferenza per la politica dell’accoglienza nei confronti degli immigrati. Non comprendere l’urgenza di intervenire con un nuovo piano di politiche sociali, di mettere in moto nuove strategie di redistribuzione e di farlo con competenza e umiltà sarebbe davvero improvvido, altrettanto quanto pensare che la strada giusta sia quella della deregolamentazione o della managerializzazione dei servizi, un vizio economicista di cui la sinistra sembra oggi andare fiera.
A perdere non sarebbe solo e tanto la sinistra, ma il tenore del nostro tessuto sociale nelle città e nei paesi dove viviamo, laddove si è sedimentata la nostra pratica di vita democratica.
A perdere non sarebbe solo e tanto la sinistra, ma il tenore del nostro tessuto sociale nelle città e nei paesi dove viviamo, laddove si è sedimentata la nostra pratica di vita democratica.
Ronchi mette a nudo una delle ragioni macroscopiche di questo disagio delle democrazie sociali mature: il legame conflittuale tra bisogno e confini; la tensione tra universalismo dei valori e la loro applicazione tra persone che hanno bisogno di riconoscersi come eguali; la difficile relazione tra le politiche redistributive e la composizione socio-culturale della popolazione.
Il bisogno è naturalmente il punto di partenza dei criteri di giustizia ai quali si è ispirata la sinistra democratica del dopoguerra. Il bisogno lo si può giudicare e misurare secondo due grandi parametri, che non collimano tra loro necessariamente: quelli che si basano su dati misurabili e quelli che si basano su valutazioni di merito e di contesto. Il reddito per nucleo famigliare nel primo caso; e un resoconto su che cosa, con quel reddito, una persona può fare nella città o nel paese in cui vive nel secondo caso. Universalismo lineare in un caso; distribuzione di servizi attenta alle capacità che le persone hanno e a quelle che servono loro nel determinato contesto di vita nel quale devono svolgere le loro funzioni.
Come si intuisce, il primo criterio è adatto a un contesto di sufficiente omogeneità sociale — ha funzionato fino a quando lo Stato-nazione è stato il collettivo di riferimento. Come dice Ronchi, la sinistra è nata mettendo confini tra chi era parte della nazione e chi non lo era (anche i ricchi cosmopoliti). Il criterio di cittadinanza nazionale ha determinato le politiche di solidarietà sociale e ha nel suo tempo funzionato.
Certo, le ingiustizie c’erano e associazioni e partiti si incaricavano di denunciarle e correggerle. Ma quale che fosse stato il dissenso, il metro di giudizio era condiviso: il cittadino era sinolo di diritti e doveri, e quindi di servizi che mettessero una barriera alle diseguaglianze di condizione. Questo modello ha consentito di distribuire servizi all’infanzia, assegnare alloggi, accedere ai servizi pubblici in generale. Ha avuto largo successo in Emilia, integrando i meno abbienti e facendone cittadini responsabili e partecipi. La socialdemocrazia è stata tutto questo.
Come osserva Ronchi, oggi questo modello è in crisi proprio nell’Emilia. Ed è in crisi insieme alla sinistra democratica un po’ in tutta Europa, come Brexit ha dimostrato in maniera dirompente. Pensare che la fedeltà di partito o di bandiera o di leadership possa mettere a tacere questa grande insoddisfazione è semplicemente sbagliato. Il voto per fede si scontra con un disagio che è più grande e più vero — semmai, se deve essere ancora voto per fede sarà dato a una nuova religione: quella del nazionalismo identitario e xenofobo.
È evidente che il bisogno di giustizia c’è: ad essere in crisi è il modo di affrontarlo. L’immigrazione è, scrive Ronchi, il fattore al quale rivolgersi per capire perché il modello classico di redistribuzione non funziona più. E lo si vede proprio sul campo: con gli esistenti criteri distributivi i concittadini perdono rispetto agli immigrati — i quali hanno comunque redditi più bassi e soprattutto famiglie più numerose e possono accedere con più facilità ai servizi.
L’accoglienza finisce per penalizzare i cittadini e ciò non tarda a generare sentimenti di rabbia razziale, di intolleranza — trasformando le ragioni dell’insoddisfazione per come le regole di giustizia sociale funzionano in ragioni identitarie. Incolpando gli immigrati e quindi le politiche delle frontiere porose, ovvero la cultura dell’accoglienza e l’etica cosmopolitica che le forze liberali e democratiche hanno in questi anni coltivato, e che ha costruito l’Unione Europea, a partire dal Trattato di Roma.
Chiede Ronchi: «come conciliare, in quanto uomo di sinistra, il mio dovere di solidarietà con l’impossibilità oggettiva di “accogliere tutta la miseria del mondo”?». È evidente che nessuno è così onnipotente da poter “accogliere tutta la miseria del mondo”. Però possiamo fare uno sforzo di elaborazione e di ricerca per rivedere criteri e politiche sociali affinché siano in grado di dare giustizia in questa nuova condizione; affinché siano attente ai contesti e alle reali capacità delle persone.
Lo scopo è difendere la vita democratica in una realtà che è comunque multietnica. E si dovrà prestare attenzione non solo all’accoglienza, ma soprattutto all’integrazione civica. Integrare gli immigrati nel tessuto socio-politico significa istruirli non solo nella lingua, ma educarli ai diritti civili, alle regole di giustizia, al dettato della nostra Costituzione. Oggi c’è più, non meno, bisogno di politiche pubbliche; ce n’è tanto bisogno quanto ce n’era negli anni della ricostruzione postbellica — perché di ricostruzione si tratta comunque: della fiducia nelle istituzioni politiche, della stabilità sociale e della tranquillità civile.
Nel dopoguerra, il sindaco di Bologna Giuseppe Dozza capì che per ricostruire dalle macerie della guerra nazi-fascista occorreva ricostruire la società civile e la democrazia: mise insieme conoscenze e competenze per definire piani di progettazione del futuro, non per vincere una campagna elettorale: politiche sulla casa e la scuola di ogni ordine e grado, l’assistenza sanitaria e sociale, i servizi al lavoro e all’imprenditoria; e, a tenere tutto insieme, i luoghi e i servizi di cittadinanza partecipata, nei quartieri e con le associazioni della società civile.
Il socialismo alla Prampolini, ovvero l’attenzione alla vita quotiana delle persone dove esse vivono per costruire una società giusta: questa era la logica seguita nell’Emilia del dopoguerra. E forse ancora dal riformismo bisogna ripartire, adattato ovviamente a questo tempo, poiché il disagio sociale così grande e pervasivo lo si vive nel concreto della vita locale, non è un’astratta categoria a uso di esperti della comunicazione politica.
Fonte: La Repubblica
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