di Laura Morgantini
C’è un “temino” delle elementari che da mesi gira e rigira sui maggiori quotidiani nazionali e riviste internazionali sebbene compaia ogni volta a firma diversa. Un temino che non esito a definire triste e superficiale, poiché ciò che mostra è la mancanza di conoscenza degli argomenti da parte di chi scrive, oltre ad un uso strumentale degli stessi. Da mesi si sta cercando di tracciare un filo rosso tra casi che non hanno niente a che vedere l’uno con l’altro — il caso Stamina, il calo delle vaccinazioni, le indagini sul presunto traffico di virus aviari e le sentenze che ne sono seguite, l’emergenza Xylella negli ulivi del Salento, gli Ogm — ma che servirebbero a dimostrare, con una sorta di inspiegabile compiacimento, che l’Italia è un Paese che odia la scienza.
L’Italia purtroppo è un Paese dove la corruzione è endemica e dove le lungaggini processuali sono inaccettabili. Ciò però non si può certo tradurre nella rinuncia a indagare di fronte a notizie di reato. Nemmeno quando sono coinvolti scienziati. O è proprio questo che si cerca di sostenere in tali articoli?
Entrando nei dettagli delle singole vicende si riesce, anche con una certa agilità, a smontare pezzo per pezzo il teorema che tanto piace a certa stampa e a certi intellettuali, nelle sue varianti oggi maggiormente in voga: “Paese che odia la Scienza, “Magistratura contro la Scienza”, da utilizzare a seconda delle vicende che via via si profilano all’orizzonte (mediatico).
Partiamo da Stamina, uno dei casi che ho seguito da vicino. Se ne siamo usciti è proprio grazie al lavoro della magistratura. A trascinarci dentro invece sono stati inizialmente alcuni medici e dirigenti ospedalieri. E’ innegabile che al cuore del corto circuito — quello che ci ha fatto rischiare di testare sull’uomo un preparato pericoloso per la salute umana in un trial clinico “di Stato” — ci sono prima di tutto le responsabilità di alcuni membri del personale sanitario di un ospedale pubblico. Responsabilità che sono state accertate proprio dai carabinieri dei Nas insieme ad Aifa, l’ente regolatorio del farmaco.
Sono stati alcuni dirigenti e medici di uno dei migliori ospedali italiani, col benestare della politica, a rendere possibile il sogno di tutta una vita di Davide Vannoni (leader di Stamina): uscire dai garage dove operava in clandestinità (e dove sarebbe stato probabilmente arrestato senza ulteriori conseguenze per lo Stato) per vedersi spalancare le porte di un ospedale pubblico (e garantirgli pertanto di operare alla luce del sole). E’ da questo passaggio chiave che è dipeso tutto ciò che è accaduto dopo, anche se molti giornalisti e commentatori non se lo ricordano più. Ancora oggi quei politici, medici e dirigenti non hanno dato conto pubblicamente del perché decisero di firmare una convenzione con la Fondazione Stamina, permettendole così di somministrare l’”olio di serpente” (come fu definito da molti veri scienziati delle staminali) all’interno di un ospedale e in violazione di qualunque standard scientifico internazionale. Vale la pena sottolineare che così facendo tali medici hanno loro per primi conferito lo status di cura all’olio di serpente, poiché si dà il caso che un paziente che riceve un trattamento medico all’interno di un ospedale pubblico dia per assodato che esso sia stato già validato e che non lo esponga ad inutili rischi (come ad esempio quello legato alla contaminazione batterica, per nominarne uno relativo al caso Stamina). Invece, quel personale sanitario si spinse fino ad iniettare il preparato Stamina ai pazienti, pur non conoscendone la composizione. Non solo: quei medici permettevano a un biologo di Stamina di cacciarli fuori dal laboratorio dove veniva preparato il trattamento ogni qualvolta il biologo doveva aggiungere “l’Ingrediente segreto” al preparato prima di iniettarlo ai pazienti. Questo è quanto è accaduto in origine. In un ospedale pubblico italiano. Se di ignoranza si è trattato, ha riguardato prima di tutto chi la scienza dovrebbe conoscerla. La stampa farebbe bene a ricordarlo quando richiama il caso Stamina.
Per quanto riguarda il calo delle vaccinazioni, è sicuramente un problema serio. Ma come spiegano esperti sia italiani che stranieri, non è con ulteriori obblighi di legge (come proposto nell’ultimo Piano Nazionale Vaccini e già implementato dalla regione Emilia Romagna) che si può favorire la creazione di una cultura condivisa della vaccinazione. Questo poteva andar bene in anni in cui la scolarizzazione in Italia era al minimo storico. Oggi non è più accettabile. E’ investendo sulle campagne di informazione, sui consultori, sul personale sanitario che si può raggiungere l’obiettivo, con processi condivisi e mirati a raggiungere e coinvolgere la popolazione finanche gli scettici. Non è certo additandoli come ignoranti e complottisti che la situazione migliorerà. C’è da dire che neanche l’ombra dei conflitti di interesse che grava su chi ha stilato l’ultimo Piano Nazionale Vaccini pare essere la strategia migliore a generare maggiore fiducia nella vaccinazione. Compromettere il patto di fiducia tra medico e paziente, industria farmaceutica e paziente, può solo che peggiorare le cose.
Nel 2016, come spiega bene Vittorio De Micheli (ex responsabile dei programmi vaccinali del Piemonte) bisogna fare in modo che le persone chiedano e pretendano di essere vaccinate o di vaccinare i propri figli, perché ne comprendono l’importanza e perché si fidano di chi è chiamato a scegliere, per loro, le migliori strategie. Non è con la forza, ad esempio impedendo l’entrata a scuola a chi non è vaccinato, che aumenteranno le soglie.
Stessa cosa vale per il caso Xylella del Salento: indipendentemente da chi abbia ragione, per imporre una misura così drastica ad un territorio (quella del taglio degli ulivi) c’è bisogno di un processo condiviso con la cittadinanza. Che può essere faticoso, ma questo è ciò che consegue al fatto di vivere (per nostra fortuna) in uno Stato di diritto. Tra l’altro né l’Europa né il governo italiano hanno ritenuto di dover prima validare scientificamente l’efficacia del taglio, misura che si vorrebbe calare dall’alto, senza sé e senza ma, su un intero territorio la cui bellezza e tradizione sono legate a doppio filo alla presenza di migliaia di ulivi secolari e millenari. La popolazione, giusto o sbagliato che sia, è attualmente contraria (si veda la discussione tra Antonia Battaglia e Marco Cattaneo pubblicata su MicroMega 5/2016 per maggiori dettagli). Lo è anche perché chiede prove scientifiche di ferro(vista la posta in gioco) che il taglio sia l’unica misura efficace. Prove che non sono mai state fornite, nonostante l’Europa abbia aperto una nuova infrazione contro l’Italia per non aver proceduto all’estirpazione degli ulivi. Dare dell’ignorante a chi si oppone — e che lo fa, dal suo punto di vista, in difesa del proprio territorio — non contribuisce a raggiungere il migliore risultato possibile. Ed è agghiacciante vedere come certi professionisti dell’informazione scientifica si accaniscano contro gli “ignoranti”, spingendosi in alcuni casi fino allo sberleffo e allo scherno. Quando avrebbero invece il preciso dovere di contribuire a fare chiarezza (riportando tutte le notizie, non solo quelle che maggiormente incontrano i gusti personali del giornalista) e fornire gli strumenti culturali a chi forse non è un esperto, ma non per questo non ha interesse a capire. L’ignoranza dunque risiede proprio in questo modo di procedere: insultare chi si azzarda a pensarla diversamente, sulla base di una presunta superiorità culturale (tra l’altro, certificata da chi?). Ignorare arrogantemente i processi democratici che sottendono alle questioni politiche o giudiziarie dove entra in gioco anche la scienza — pensando di risolvere a colpi di imposizioni dall’alto o facendo appello agli ipse dixit di turno — contribuisce solo ad abbassare il livello culturale e il senso critico di questo Paese, oltre a intaccare le basi della democrazia. Un atteggiamento che alla scienza può solo nuocere, mentre ha il “pregio” di favorire l’humus dove prospera la corruzione.
E’ proprio l’ostinazione a non voler tenere in conto la complessità della realtà (che lo stesso concetto di democrazia ci impone di abbracciare) che rivela l’ignoranza e il cinismo di una parte della classe dirigente e degli intellettuali di questo Paese. Di chi cioè avrebbe tutti gli strumenti per cogliere tale complessità, ma preferisce abdicare in favore di ricette semplicistiche e solo in apparenza di più rapida applicazione (come il caso Xylella, tuttora irrisolto, tristemente insegna). Ricette che sembrano in certo casi voler silenziare il libero dibattito,biasimando e perfino schernendo chi la pensa diversamente dai “guru” di turno. Un dibattito che invecedeve includere tutti — “ignoranti” e non — e che rappresenta l’unica via per giungere a soluzioni realmente efficaci, perché condivise. In una parola, democratiche.
Fonte: Roars.it
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