di Mariarosaria Lubes
Agli inizi degli anni Ottanta, quando il ciclo di grande espansione dell’economia mondiale che aveva caratterizzato il secondo dopoguerra si interrompe bruscamente e la crisi economica, innescata dall’aumento del prezzo del greggio, mostra il suo carattere strutturale, -com’è noto- una radicale rivoluzione politica e di pensiero è impressa dai governi di Thatcher e Reagan oltre le due sponde dell’Atlantico.
Ci si lascia alle spalle, nell’Occidente industrializzato, la fase del capitalismo ‘imbrigliato’ dalla democrazia, della limitata mobilità dei capitali, della produzione fordista regolata dagli Stati nazionali, e comincia la rivoluzione neoliberista- o, più correttamente, controrivoluzione- con le sue politiche che ridefiniscono il ruolo dello Stato, privatizzano e smantellano progressivamente i sistemi di welfare, ma soprattutto con quello che può considerarsi il suo portato più rilevante (e spesso sottaciuto) sul piano ideologico e antropologico: il primato dell’homo oeconomicus[1] e della lex mercatoria, ovvero la distruzione di tutte le regolazioni di tipo sociale e politico a vantaggio della sola regolazione di mercato. E se, intanto, nello scenario internazionale la propaganda americana teneva sveglio l’antagonismo contro il nemico esterno -il blocco comunista identificato come ‘l’impero del male’-, la nuova cultura egemone tendeva progressivamente ad inibire il conflitto sociale e politico e ad occultarlo dal dibattito pubblico. Dalla seconda metà degli anni Ottanta, il processo di ‘democratizzazione’ nei paesi del blocco sovietico culminava con il crollo del regime comunista nell’Europa orientale fino al successivo collasso della stessa URSS: era l’affermazione definitiva di un unico modello socio-economico, capitalista e democratico, che ha favorito una narrazione volta alla celebrazione di un mondo finalmente pacificato, in cui il conflitto non ha alcuna ragion d’essere perché capace di progredire nella direzione di una condizione universale di libertà, democrazia e benessere materiale.
Ci si lascia alle spalle, nell’Occidente industrializzato, la fase del capitalismo ‘imbrigliato’ dalla democrazia, della limitata mobilità dei capitali, della produzione fordista regolata dagli Stati nazionali, e comincia la rivoluzione neoliberista- o, più correttamente, controrivoluzione- con le sue politiche che ridefiniscono il ruolo dello Stato, privatizzano e smantellano progressivamente i sistemi di welfare, ma soprattutto con quello che può considerarsi il suo portato più rilevante (e spesso sottaciuto) sul piano ideologico e antropologico: il primato dell’homo oeconomicus[1] e della lex mercatoria, ovvero la distruzione di tutte le regolazioni di tipo sociale e politico a vantaggio della sola regolazione di mercato. E se, intanto, nello scenario internazionale la propaganda americana teneva sveglio l’antagonismo contro il nemico esterno -il blocco comunista identificato come ‘l’impero del male’-, la nuova cultura egemone tendeva progressivamente ad inibire il conflitto sociale e politico e ad occultarlo dal dibattito pubblico. Dalla seconda metà degli anni Ottanta, il processo di ‘democratizzazione’ nei paesi del blocco sovietico culminava con il crollo del regime comunista nell’Europa orientale fino al successivo collasso della stessa URSS: era l’affermazione definitiva di un unico modello socio-economico, capitalista e democratico, che ha favorito una narrazione volta alla celebrazione di un mondo finalmente pacificato, in cui il conflitto non ha alcuna ragion d’essere perché capace di progredire nella direzione di una condizione universale di libertà, democrazia e benessere materiale.
Diversamente dal racconto retorico della pacificazione, in auge fino alla metà degli anni Novanta, il dispiegarsi del neoliberismo è da subito marchiato dalla volontà del grande capitale di restaurare il suo potere, incrinato dal compromesso keynesiano dei precedenti ‘gloriosi trent’anni’. A posteriori, la lunga fase del neoliberismo (certamente non conclusa) può essere letta, con Harvey, come un gigantesco episodio di “restaurazione del potere di classe”[2], così come il passaggio da un sistema di istituzioni politiche ed economiche di orientamento keynesiano ad un “regime economico neohayekiano” può essere inteso come l’avvento di un’epoca in cui la possibilità stessa della giustizia sociale viene negata in ossequio alla “giustizia di mercato”[3]. Attraverso un’operazione pervasiva di educazione e di ‘formattazione’[4] –che, si è detto, ha fatto del mercato l’unico orizzonte cognitivo del mondo occidentale- la controrivoluzione neoliberista da un lato ha messo in discussione lo sviluppo sociale delle democrazie post-belliche (che aveva garantito sicurezza sociale, una certa redistribuzione della ricchezza e un’ampia grammatica di diritti individuali e collettivi, grazie anche alla centralità dei partiti politici e dei sindacati), dall’altro ha sostituito in tutte le sfere della vita sociale il modello del conflitto e/o della mediazione con quello della competizione. Ci si spiega così perché la politica che per inerzia semantica definiamo ancora ‘sociale’ nella gran parte dei paesi occidentali tenda sempre più a massimizzare l’utilità della popolazione,[5] degradando il diritto del lavoro, comprimendo diritti sociali, riducendo salari e pensioni, il tutto in nome dell’adattamento alla competizione globale. Lo Stato stesso, assumendo il compito di conformare il più possibile la società ai vincoli della finanza globale e della concorrenza mondiale, guarda alle popolazioni e ai singoli individui dal doppio punto di vista della ‘risorsa umana’ da capitalizzare (cioè del potenziale contributo in termini di impiegabilità e produttività), e di ‘carico sociale’ (cioè del costo da ridurre progressivamente) nella competizione mondiale. Con l’avvento del neoliberismo si è chiusa, del resto, la fase del regime ‘inclusivo’ dell’opposizione di classe, istituito nel secondo dopoguerra, ovvero del conflitto inquadrato nei sindacati da cui procedeva negoziazione e avanzamento sociale; oggi i sindacati sono chiamati ad agire ‘di concerto’ con i governanti, e qualunque sindacato non rispetti principi meramente manageriali o non accetti immediatamente i risultati a cui la ‘concertazione’[6] deve necessariamente condurre, è subito escluso dal gioco della rappresentanza dei lavoratori.
E’ dunque ad una mutazione antropologica della soggettività contemporanea che bisogna risalire per cogliere le ragioni profonde della rimozione del conflitto dal senso comune, dal dibattito pubblico e dall’orizzonte politico. La contestualizzazione storica dell’analisi del fenomeno non può che essere quello della globalizzazione,[7] termine problematico e abusato e, comunque, da intendere qui in un’accezione ampia, come epoca della mercificazione totale e della competizione generalizzata, avviata dalla controrivoluzione neoliberista, con le sue pesanti conseguenze in termini di crisi della politica e di deterioramento della democrazia.
Dal conflitto politico alla competizione regolata politicamente
Peculiarità della democrazia del nostro tempo, nella sua versione europea e ancor più in quella nordamericana, è quella di essere presentata dal pensiero mainstream e dal discorso dominante come l’unico modello di società possibile, quasi una sorta di epifania, coronamento trionfale del lungo cammino storico dell’umanità. Realtà incontestabile che ha legittimità a giudicare ogni altra organizzazione sociale, distribuendo voti buoni e cattivi ai sistemi politici del passato e del presente, la democrazia contemporanea combina efficacemente la rimozione dei conflitti politici con un certo obbligo di rivalità appunto ‘democratica’: a ben guardare, essa sostituisce alla molteplicità conflittuale del tessuto sociale la competizione quale unica forma di conflittualità legittima, benché solo apparente. Da quando la razionalità mercantile permea di sé le società contemporanee o, meglio, da quando –per dirla con Dardot e Laval -la razionalità monologica e totalizzante del neoliberismo è divenuta la nuova ragione del mondo, in virtù del suo specifico potere di pervasività l’impresa è stata promossa al rango di modello di soggettivazione,[8] e la competizione/concorrenza non è più solo norma dell’attività degli agenti economici ma si è estesa e generalizzata: non soltanto governa le relazioni economiche mondiali fino a provocare guerre tra popoli, ma presiede anche le politiche pubbliche, mette a profitto la natura, organizza i rapporti sociali, rimodella la soggettività; la norma della competizione, detto altrimenti, trasforma l’individuo -esortato a concepire se stesso come un’impresa- e tutti i suoi ‘mondi della vita’. La pedagogia del capitalismo -e del capitalismo finanziario che è ‘figlio’ prediletto della ragione neoliberista- ha creato un uomo nuovo, non più persona ma capitale umano e imprenditore di se stesso, non più soggetto capace di individuazione e soggettivazione ma attore economico a produttività crescente, assorbito nelle dinamiche della competizione, tanto integrato e assoggettato al capitalismo da mostrarsi incapace di porsi in un atteggiamento critico e di ‘rifiuto del mondo’. Il prodotto ultimo della mutazione antropologica innescata dal paradigma neoliberista può definirsi, allora, nei termini di una soggettività dell’adattamento al mondo o di una soggettività che, sulla scia di Weber, potrebbe definirsi sazia.Dimitri D’Andrea stigmatizza il soggetto sazio[9] come incapace di suscitare conflitti politici legati al fronteggiarsi di posizioni eticamente confliggenti perché incapace o disinteressato a porre all’agire politico esigenze di senso. La ‘sazietà’ dell’individuo contemporaneo non rimanderebbe, dunque, all’esperienza di una pienezza ma segnalerebbe, al contrario, un vuoto che tuttavia non produce ricerca o tensione verso una soddisfazione perché coincide con la rimozione del desiderio stesso di contenuti di senso. Ne deriva una società senza scontro tra idee diverse su come organizzare le relazioni tra gli uomini, una società senza conflitto politico appunto. “La saturazione della capacità dell’individuo di porre alla politica domande di senso –scrive D’Andrea- ha mutato la fisionomia della forma dominante di conflitto nelle società contemporanee: dal conflitto politico alla competizione regolata politicamente”, ovvero “lo scontro tra criteri diversi di regolazione delle relazioni sociali ha ceduto il passo alla competizione per risorse scarse secondo regole totalmente condivise”.[10] E quando il conflitto scompare insieme al prosciugarsi delle risorse etiche ad esso necessarie, in suo luogo la competizione produce un deperimento della politica tout court, che si riduce progressivamente all’esercizio di modalità ‘tecniche’, sostanzialmente subordinate alle legalità autonome dell’economia.[11]
Dunque, se la razionalità del mercato plasma il mondo e presiede ogni ambito dell’esistenza umana, producendo perdita di senso e scopo nell’agire dei soggetti, rendendoli sempre più incapaci di previsione, decisione e controllo rispetto al mondo stesso[12], la mutazione antropologica assume i caratteri della desoggettivazione dell’individuo prodotta, appunto, dal carattere espansivo e pervasivo della logica mercantile. Tradita la profondità del progetto emancipativo della modernità, l’età globale mostra le sue più gravi patologie proprio nella sfera della soggettività, dell’autonomia, del rapporto tra individuo e collettività, dell’immaginazione e della costruzione del futuro e perciò della politica come spazio dell’infra, per dirla con H. Arendt. In un recente saggio critico delle distorsioni e delle disfunzioni del modello di sviluppo neoliberista, l’economista Laura Pennacchi ha evidenziato come l’assolutizzazione dell’homo oeconomicus prodotta dalla razionalità strumentale e utilitaristica del neoliberismo si traduca principalmente in svuotamento della soggettività: “lo svuotamento etico ed emotivo dell’agente, la sua passivizzazione, la sua mutilazione in termini di intersoggettività e intercomunicatività equivalgono –scrive- alla negazione della sua soggettività e della sua autonomia e alla compromissione della possibilità di pensare un’attività politica e una vita associata”.[13] Il quadro entro il quale si colloca la declinazione del conflitto in termini di mera competizione rimanda allora, in ultima istanza, alle forme della desoggettivazione individuale e collettiva, della desocializzazione dell’individuo e della depoliticizzazione della società dell’età globale.
In qualche modo coerente, o comunque non distante, con queste analisi risulta la lettura che il sociologo A. Caillé dà al fenomeno del superamento del conflitto politico, inscrivendolo nelle dinamiche geopolitiche e nei processi latu sensu culturali dell’Occidente post-bellico. Evidenziando la strettissima dipendenza della democrazia moderna dalla crescita economica e considerando che, finita la guerra, la democrazia politica in Europa è stata edificata durante un ventennio di grande espansione economica (1950-70) e nel ciclo del welfare state, l’ideale democratico ha ‘sedotto’ popoli e nazioni attraverso i valori di libertà e di uguaglianza da cui è inscindibile ma anche attraverso la promessa di prosperità, perché ha lasciato belenare “agli occhi di ciascuno la prospettiva di un arricchimento materiale ininterrotto per sé e i propri figli”: è, dunque, alle speranze di un miglioramento delle condizioni materiali e simboliche di vita nutrite da milioni di donne e uomini che Caillé attribuisce il principale motivo dell’affermazione della democrazia politica nel secondo dopoguerra e la contestuale rimozione del conflitto. Rielaborando i risultati delle ricerche di R. Girard in materia di violenza sociale- che distinguono tre forme di gestione del conflitto e di canalizzazione del risentimento sociale (proiezione, introiezione e dialettizzazione dell’odio)- Caillé mostra come la prospettiva di crescita e di benessere abbia svolto una funzione di esorcizzazione di tutti i risentimenti e realizzato una quarta modalità di gestione dell’odio sociale, ovvero “la sua esteriorizzazione oggettivata (Entausserung) nell’universo materiale”: “invece di uccidere sempre più nemici o vittime sacrificali –spiega- si accumulavano sempre più cose”.[14] La speranza di benessere diffuso, peraltro in parte realizzata durante i ‘gloriosi trent’anni’, avrebbe dunque funzionato comecapro espiatorio positivo, dischiudendo un orizzonte di aspettative e di speranze collettive e condivise, e lasciando che l’ideale democratico si identificasse sempre più con l’esteriorizzazione/alienazione in un universo di beni materiali e oggetti simbolici.
I movimenti latinoamericani: conflittualità sociale e produttività politica
Se la forma della democrazia liberale si è dissolta, nell’Occidente capitalista, nelle entropie della globalizzazione e della mercificazione globale, volgendo lo sguardo al continente sudamericano e alla sua storia recente si coglie il tentativo di costruire una democrazia di nuovo tipo: radicale, autentica, sociale, ‘insorgente’ direbbe M. Abensour. La forza e la produttività politica che i movimenti sociali hanno saputo esprimere attraverso forme diverse di conflitto ha determinato una svolta epocale e un cambiamento radicale nel vocabolario e nella grammatica della politica tale da rendere l’America latina un fondamentale laboratorio politico per il presente globale in transizione. Su una lunga storia– in cui l’accumulazione capitalista non si è mai liberata dal peccato originale della conquista, del genocidio e della violenza coloniale- si innestano oggi sperimentazioni innovative sia sul piano delle lotte e dei movimenti, sia su quello dei governi e del capitale. Focalizzando l’attenzione sul protagonismo dei movimenti sociali, la potenza destituente di moltitudini eterogenee si è imposta sulla scena politica a partire dalla fine degli anni Ottanta -se vogliamo dal 1989, anno della grande insurrezione dei poveri di Caracas- in Venezuela, Messico, Brasile, Argentina, Ecuador, Bolivia, producendo significative trasformazioni materiali nella società. Rivolte, insorgenze, marce e altre forme di mobilitazione di massa hanno perseguito obiettivi politici diversi e radicali che intrecciano opposizione alle politiche di austerità (negli anni del ‘consenso di Washington’), rivendicazione di democrazia deliberativa e partecipativa, ambientalismo e biocentrismo, richieste di riconoscimento culturale. Tra le esperienze che meritano menzione perché emblematiche dei movimenti sociali latinoamericani: i leventamientos indigeni, a cominciare dalla irruzione del 1° gennaio del 1994 dell’EZNL sullo scenario politico messicano e mondiale che rilancia simbolicamente il protagonismo indigeno e riapre la storia della conquista coloniale; le mobilitazioni dei contadini brasiliani sem terra, che sollevano una nuova questione agraria; le lotte operaie che si incontrano con l’occupazione e l’autogestione di imprese dismesse e con grandi mobilitazioni di lavoratori disoccupati; le insorgenze di moltitudini di poveri urbani che conquistano spazi di parola e di azione. In ogni caso si tratta di una politicizzazione conflittuale della cooperazione sociale e della produzione di spazi e risorse fondamentali per l’organizzazione della vita comune. Al di là delle diverse contingenze geo-storiche e delle specificità nazionali pur rilevanti e significative, si possono individuare alcuni aspetti che hanno giocato un ruolo chiave nelle forme di intervento dei movimenti: la pratica del ‘sociale’- sostantivato- come forza direttamente politica e antagonista (dunque il radicamento all’interno di un tessuto denso ed eterogeneo di pratiche sociali quotidiane e di cooperazione sociale); il modo critico di articolare la ‘questione del potere’ nelle pratiche e nei discorsi (in primo luogo, la critica della rappresentanza come logica fondamentale della partecipazione democratica); l’ottica dell’orizzontalità nella organizzazione di spazi economici e sociali; la riorganizzazione del mondo del lavoro attraverso la scomposizione delle sue forme e delle sue figure tradizionali; la lettura delle crisi ambientali e sociali anche attraverso strumenti della scienza postnormale e dei saperi ancestrali. Assumendo scala continentale, un più che ventennale ciclo di lotte ha così destituito la legittimità delle politiche neoliberali e delle forme politiche tradizionali di cittadinanza e di rappresentanza; ha mutato radicalmente il rapporto tra governanti e governati; ha recuperato definizioni di buona vita (sumak kawsay o buen vivir[15]) da centri autonomi di produzione di conoscenza. Attraverso una pratica e una narrazione del conflitto, della resistenza e della proposta, i movimenti sociali hanno testimoniato l’esistenza tangibile di un fronte ampio e alternativo a quello del capitalismo e dell’omologazione culturale: la scommessa è stata quella di costruire una democrazia della Terra nel suo significato di relazione interdipendente e mutualistica tra i diritti individuali e collettivi e quelli delle comunità locali autoctone e degli ecosistemi presenti, ovvero di una democrazia della diversità, di “un mondo capace di contenere tanti mondi”- come affermavano gli zapatisti messicani insorti contro il NAFTA (Trattato di Libero Commercio del Nord America).
Le rivoluzioni antiliberiste: processi incompiuti?
Una spiccata connotazione antiliberista contraddistingue l’antagonismo dei movimenti sociali dal 2001 (anno della crisi in Argentina). Mobilitazioni contro l’intensificazione dell’attività mineraria in Perù, conflitti in Bolivia (TIPNIS, Territorio Indigeno e Parco Naturale Isiboro Secure) ed Ecuador (Parco Yasuni) contro l’avanzamento dei progetti di ‘sviluppo’ in territorio indigeno, scontri contro la deforestazione e l’uso predatorio della terra in Amazzonia e contro le privatizzazioni e il saccheggio di intere comunità in Messico, conflitti delle comunità rurali contro l’estensione delle terre destinate alla coltivazione della soia, nuovi conflitti sindacali in Argentina hanno, nel complesso, definito una ondata di nuova conflittualità, ‘nuova’ non in senso assoluto ma in relazione alle lotte per i diritti umani e civili e alla conflittualità della miseria: si può interpretare come la reazione sociale alla violenza dell’estrazione e della rendita- le caratteristiche più aggressive del modo di accumulazione vigente; si estende, infatti, in territori che, solcati da dinamiche di valorizzazione finanziaria e da processi di espansione delle frontiere agrarie, minerarie e degli affari urbani, hanno perduto la loro vecchia condizione di periferia per diventare sempre più centrali. E’ una lotta che supera la separazione tra beni naturali da proteggere e società danneggiate da riparare e si inscrive nell’orizzonte della costruzione di nuove istituzioni popolari e post-statali, con la finalità di riformulare e riarticolare le istituzioni politiche esistenti.
Gli spazi politici aperti dalla nuova conflittualità sono stati, infatti, occupati da soggetti e governi che possono vantare un rapporto diretto con i movimenti e con le lotte (come è stato con Lula in Brasile e Morales in Bolivia) oppure il rapporto è stato costruito a posteriori nella prospettiva di allargare le basi sociali per rafforzare la legittimità dei governi (come con Kirchner in Argentina e Correa in Ecuador). L’azione di movimenti è stata seguita dall’apertura di processi costituenti soltanto in Ecuador (2008) e Bolivia (2009), ma anche dove ciò non è accaduto essa si è prodotta sul piano della costituzione materiale e della stessa strutturazione dello spazio politico: i governi ‘popolari’ o ‘progressisti’[16] che in molti paesi si sono formati nello spazio aperto dalle rivolte, almeno in una prima fase, hanno riconosciuto la potenza dei movimenti sociali accettandone il ‘potere di veto’ esercitato nelle piazze e nelle strade rispetto al ritorno alle politiche neoliberali. Si è delineato all’inizio del nuovo millennio un passaggio d’epoca, un vero e proprio giro a la izquierda, se si considerano l’apertura dell’arena politica e istituzionale a soggetti che ne erano stati esclusi, le politiche sociali e redistributive, il riconoscimento diffuso dell’autonomia territoriale e organizzativa delle comunità indigene (e a molti queste esperienze sono apparse le uniche e credibili esperienze di successo nella prospettiva di ricostruzione di un’alternativa di ‘sinistra’ al neoliberismo). E tuttavia oggi, anche alla luce delle recenti sconfitte elettorali,[17] la crisi in atto dei governi progressisti della regione si coglie nel rallentamento dei processi di integrazione regionale, nell’affermazione di un capitalismo sempre più ‘estrattivo’, nei vincoli concreti che i governi stessi promuovono con il mercato globale mediante politiche neo-estrattive e spossessive. E se si guarda all’inclusione di buona parte dei movimenti sociali nei dispositivi di governo dei territori, alla progressiva perdita del ruolo trasformativo dei movimenti stessi e- dicevamo- al ruolo attivo dello Stato rispetto all’egemonia della rendita e ai persistenti processi di finanziarizzazione, la dinamica centrale delle istituzioni politiche dal 2001, nella gran parte dei paesi latinoamericani, sembra essere quella della produzione di governamentalità neoliberale, nell’accezione propriamente foucaultiana dell’espressione: i governi, infatti, operano tendenzialmente sulla base di elementi costituenti espressi dalle lotte ma al contempo riscrivendoli in un orizzonte governamentale di stampo liberale. Non ci troviamo, certo, nello stesso liberalismo degli anni ’90; prende corpo, piuttosto, un modello di governance ‘post-neoliberale’ che rompe radicalmente con precedenti forme di governo e statualità ma rimane in continuità con consolidate forme di accumulazione capitalistica (in primo luogo l’estrattivismo, giustificato con il rilancio degli investimenti sociali). Si può allora convenire con Carlo Formenti quando -guardando soprattutto alla revolucion ciudadana dell’Ecuador- considera le rivoluzioni antiliberiste in America Latina come “processi rivoluzionari incompiuti” nei quali, ad una fase ascendente di lotte e mobilitazioni di operai, contadini e campesindios –quindi con una forte connotazione indigena e proletaria- che ha prodotto conquiste sociali e innovazioni costituzionali, è seguita una fase di ‘normalizzazione’ egemonizzata dagli interessi dei ceti urbani emergenti che hanno trovato espressione in governi ‘popolari’ guidati da leader carismatici. E non rimane che interrogarsi, sempre con Formenti, sulla mancata instaurazione di un potere popolare costruito dal basso e fondato sui principi dell’autogestione comunitaria, della democrazia partecipativa e di un’economia equa e solidale, bloccata dall’ascesa di regimi presidenziali fortemente centralizzati: si tratta di una tendenza irreversibile “che solo un nuovo ciclo di lotte potrà invertire”, oppure “è la via obbligata per raggiungere livelli minimi di sviluppo in assenza dei quali è impossibile realizzare riforme strutturali e perseguire un cambiamento della matrice produttiva?”
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*Berta Caceres, militante ecologista, tra i fondatori del Consiglio nazionale delle Organizzazioni popolari e indigene dell’Honduras (COPINH), leader della mobilitazione della comunità Lenca, assassinata il 3 marzo 2016 a causa del suo impegno in difesa del territorio e del diritto all’autodeterminazione della comunità indigena,. Cfr.: http://ilmanifesto.info/la-violenza-del-capitalismo-estrattivo/
[1] Alla critica dell’homo oeconomicus e, più in generale, alla critica dell’egemonia dell’utilitarismo e dell’economicismo nelle scienze sociali è dedicata una parte significativa della produzione del sociologo Alain Caillé e degli studiosi del M.A.U.S.S. (Movimento Anti-Utilitarista nelle Scienze Sociali) di cui Caillé è stato co-fondatore.
[2]Harvey D., A Brief History of Neoliberalism, Oxford University Press, Oxford 2005.
[3] Streeck W., Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico. Feltrinelli, Milano 2013, p.85.
[4] Sull’opera di ‘formattazione’ dell’essere umano (implicante la rimozione dei conflitti che lo attraversano) messa in atto dalla democrazia politica contemporanea, cfr.: Benasayag M.- del Rey A.,Elogio del conflitto, Feltrinelli, Milano 2008.
[5] Dardot P.- Laval C., La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista.DeriveApprodi, Roma 2013, p.379.
[6] Ibid.
[7] Sul concetto di globalizzazione, tra gli altri, cfr.: Beck U., Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma 1999
[8] “L’impresa non è dunque soltanto un modello generale da imitare, ma anche una certa attitudine da stimolare nel bambino e nello studente, un’energia potenziale da sollecitare nel lavoratore, un modo di essere che è allo stesso tempo prodotto dei cambiamenti istituzionali e produttore di migliorie in tutti i campi. Stabilendo una corrispondenza strettissima tra il governo di sé e il governo delle società, l’impresa definisce una nuova etica, ovvero una certa disposizione interiore, un certoethos da incarnare per una sorveglianza di sé che le procedure di valutazione devono rafforzare e verificare”.( Dardot P.- Laval C., op. cit. p.425).
[9] D’Andrea D., Prigionieri della modernità. Individuo e politica nell’epoca della globalizzazione, in: D’Andrea D.- Pulcini E. (a cura di), Filosofie della globalizzazione, ETS, Pisa 2001, p.45.
[10] Ivi, p. 49
[11] Sul tema della crisi della politica e del deterioramento della democrazia, tra gli altri, cfr.: Crouch C., Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003
[12] Per indicare la perdita di scopo e di senso dell’agire umano, ovvero lo scollamento tra i soggetti e il mondo da essi stessi prodotto quale esito ultimo del progresso tecnico e dell’egemonia della ragione economica, G. Anders usa la celebre espressione arendtiana “perdita del mondo”; cfr.: Anders G., L’uomo è antiquato, vol. I, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
[13] Pennacchi L., Il soggetto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di sviluppo Ediesse, Roma 2015. Sul depauperamento del soggetto nell’età globale, cfr.: Pulcini E., L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001.
[14] Caillé A., Per un Manifesto del Convivialismo, Pensa Multimedia, Lecce 2013, p.17
[15] -L’uso della locuzione buen vivir, che traduce in Ecuador l’idioma quechua sumak kawsay,corrisponde alle teorie e alle pratiche di una vita sociale alter-capitalista fondata sul principio di reciprocità tra gli esseri viventi con e nella natura, proprie della cosmovisione delle culture indigene andine.
[16] I movimenti sociali, in qualche modo “al potere” già dall’inizio degli anni 2000, hanno raggiunto l’apice del successo nel 2005, quando i tre quarti della popolazione sudamericana erano governati da governi ‘popolari’ e ‘progressisiti’ (Brasile con Lula prima e Dilma poi, Argentina con i Kirchner, Venezuela con Chavez e Maduro, Ecuador e Bolivia con Correa e Morales, così come altri stati più piccoli del continente).
[17] Mi riferisco alle pesanti sconfitte della sinistra che hanno ridefinito la fisionomia politica del continente sudamericano: negli ultimi mesi del 2015, in Argentina il conservatore Macrì ha vinto le elezioni presidenziali dopo dodici anni di kirchnerismo; in Venezuela l’opposizione di centrodestra ha ottenuto una storica vittoria mettendo in minoranza il Partito Socialista e archiviando la stagione chavista.
Fonte: Iconocrazia
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