La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 16 luglio 2016

Un patologico culto della morte

di Christian Raimo
Un camion lanciato a tutta velocità nella folla tocca le paure più profonde (Duel, La macchina infernale, Convoy…), un autista nascosto che cerca zigzagando di impattare quanti più corpi possibile è una versione impazzita di Grand theft auto. È assurdo e stupido scandire: Non facciamoci prendere dalla paura. Se non ho paura di questo, cosa mi fa preservare la mia umanità? François Hollande ha dovuto ovviamente dichiarare che le misure di sicurezza straordinarie, inaugurate novembre scorso e che sarebbero restate in vigore fino al 26 luglio, saranno prolungate di altri tre mesi.
Nelle destre nazionaliste c’è chi fa ancora la voce più grossa, invocando pugni di ferro; “ora servono maniere forti” twittava stamattina Matteo Salvini. Quali sarebbero queste maniere forti? Vietare il noleggio dei camion? Espellere i milioni di cittadini di origine nordafricana dalla Francia? Distribuire armi di stato? Chiudere le frontiere a ogni ingresso in ogni città? Aumentare la sicurezza è un’espressione autocontradditoria: quello che possiamo forgiare è solo un feticcio di sicurezza di fronte a azioni del genere. Il meglio che ci possa succedere in questa escalation emergenziale è di ritrovarci come i cittadini di Israele che difendono le nuove colonie autoreclusi in uno stato sempre più militarizzato; non saremmo comunque immuni da attentati come quello di ieri. La paura non passerà.
Anche perché qui c’è di più dell’ideologia o del conflitto politico: non c’è un esercito di liberazione, guerriglieri che si organizzano, qui c’è un patologico culto di morte – qualcosa che scava dentro lo scheletro fragile della condizione umana. La follia di Mohamed Lahouiaej Bouhlel, quello che pare essere l’attentatore di ieri, non è così diversa, almeno dal punto di vista fenomenologico, da quella di Andreas Lubitz, il pilota tedesco che si schianta sui Pirenei con un aereo pieno di passeggeri, o anche da quella di Anders Breivik che spara coi suoi fucili automatici nel corso di una festa politica, o da quella di Omar Mateen che irrompe armato in un locale di Orlando e fa fuoco all’impazzata. La cupio dissolvi omicida e suicida, l’eliminazione del minimo senso di empatia, la mancanza dell’istinto di conservazione, è un morbo che affetta in modo trasversale uomini mentalmente disturbati ad ogni latitudine, trasformatisi in assassini di massa in carcere o in un internet point dove hanno passato mesi a leggere deliri di qualche sedicente guru politico o religioso; l’Isis ha gioco facile a intestarsi questa ferocia disumana che da chi uccide viene rubricata come odio nei confronti dei valori occidentali. In questo senso ha ragione Bruno Ballardini quando, nel suo libro sullo stato islamico, ne parla come di un organismo culturalmente modificato, riconoscendone i caratteri di una politica ridotta a oscena campagna di marketing dell’apocalisse; oppure Franco “Bifo”, Berardi quando cerca nel suo libro sui suicidi e gli omicidi di massa in questo impulso di annientamento la forma scenica di una crisi globale.
Del resto, “i valori occidentali”: che espressione cretina. Di fronte a questo terrorismo nichilista occorre semplicemente credere che la vita vale più della morte. Lo dice ogni fede e ogni pensiero laico e illuminista. Ma occorre al tempo stesso fare lo sforzo di immaginare cosa vuol dire che sia così diffusa un’ideologia di morte così atroce, altrimenti la sola reazione è lo stordimento e un terrore subcorticale costante, la paranoia come emozione di base.
È chiaro che i decenni degli anni novanta e duemila con i loro eroi – il ballerino ubriaco Bush e il bugiardo conclamato Blair – hanno innaffiato di veleno il pianeta laddove dichiaravano di esportare democrazia. Invece di inventarsi un piano Marshall per il Medio Oriente, invece di garantire forme di emancipazione dal neocolonialismo economico e politiche di giustizia sociale che andassero oltre un’Europa mercato unico, si è creata una campagna di guerra permanente senza una strategia politica. L’evocare fantasmi nazionali, che sia una Padania qualunque o un’Inghilterra imperiale o addirittura un ridicolo Califfato, oggi raccoglie soltanto l’odio che è stato appena seminato.
Ci sono ormai due generazioni di arabi, iracheni, siriani, libici… che non hanno visto altro che guerre nella loro vita, per cui lo stesso concetto di radicalizzazione è fuori luogo.
Lo scontro di civiltà nel 2016 è ridotto a una jihad in subappalto a piccoli sbandati contro uno stato di emergenza paranoica diffuso quanto i confini del cosiddetto occidente.
Ma se dobbiamo parlare di Francia non possiamo esimerci dall’evitare una generalizzazione: gli attentatori che hanno colpito al Bataclan o il 13 novembre scorso non erano iracheni infiltrati, kamikaze siriani, finti profughi mandati in missione da Al Baghdadi: erano cittadini francesi di origine nordafricana, erano il fallimento paradigmatico della politica sociale di un paese che non ha fatto ancora i conti con il suo colonialismo, e che solo pochi anni fa ha attuato in Libia un intervento che poteva essere datato 1960.
Ma questa complessità di letture non sarà sufficiente: anche oggi troveremo chi scriverà che una fede professata da un miliardo e mezzo di persone è un credo criminale di per sé. E avrà la sicurezza del colonnello Mathieu della Battaglia di Algeri – “disarticolare le cellule terroriste”, ancora più durezza, ancora più stati di emergenza, un parossismo che mostra solo la debolezza di una retorica dell’emergenza che non è più nemmeno efficace per affrontare il trauma.
Possiamo fingere di consolarci e accontentarci del piglio tronfio di un Hollande versione Mathieu, esaltare la forza militare, o al contrario stigmatizzare la sua retorica marziale (“Il male, noi siamo in grado di sconfiggerlo, perché noi siamo la Francia”). Non possiamo però che renderci conto di una cosa: che la sua strategia non sta vincendo.

Fonte: minimaetmoralia.it 

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