di Matteo Moca
Il libro precedente di Angelo Ferracuti si intitola Andare, camminare, lavorare, edito da Feltrinelli e uscito nel 2015, e consiste in una sorta di viaggio in Italia riletto attraverso l’esperienza dei portalettere. Quel libro rappresenta un altro tassello di quell’opera di mosaico che lo scrittore di Fermo sta portando avanti da tempo, con le sua capacità di abile narratore di reportage, in grado di indagare con intelligenza i sussulti sociali e le trasformazioni lavorative italiane. Attraverso questo interessante punto di vista che si compiva nella frequentazione di Ferracuti di 53 portalettere di cui indagare la storia e il lavoro, il libro, costruito appunto attraverso l’accostamento di questi microcosmi, interpreta l’Italia in movimento, attraverso un metodo che osserva empaticamente con gli occhi degli altri i cambiamenti, ma aggiunge, in punta di piedi e sempre con cognizione di causa, anche una interpretazione personale, mossa da una insaziabile spinta interrogativa.
Il nuovo libro di Ferracuti, Addio (edito da Chiarelettere), prosegue questo itinerario, e sposta l’attenzione su posti dimenticati della Sardegna, lontani dalla popolarità, come Carbonia, Iglesias e la zona del Sulcis, «uno dei luoghi del disagio e della desertificazione indistriale», sempre seguendo questo metodo, che Ferracuti esplicita in una pagina in cui racconta come nascono i suoi racconti e quali forme assumono: «i miei libri li considero viventi, zibaldoni in continua agitazione, con spostamenti di interi blocchi narrativi e capitoli, rimescolamenti imprevisti per associazioni di senso diverse. Sono fatti anche di incontri, con persone in carne e ossa che illuminano improvvisamente pezzi di storia che colpiscono la mia immaginazione, e che sento il bisogno di incontrare perché penso possano dirmi cose interessanti, e innestarsi con il corpo, la voce e le parole, dentro una narrazione che sta prendendo una forma propria».
Lo studio di Ferracuti è durato due anni, due anni di andate e ritorni dal continente all’isola, per assecondare il suo metodo, cioè andare e tornare continuamente dai luoghi, per «una lenta e progressiva messa a fuoco», alla ricerca dell’identità perduta del lavoro, inteso qui, e in gran parte dell’opera di Ferracuti a dire il vero, come elemento fondante anche di una letteratura “civile” che racconti la vita, le lotte e il sangue dei lavoratori: «mi sembrava l’unica cosa da raccontare, anche una forma di ribellione nei confronti del pensiero dominante, quello delmarketing che chiamano storytelling, che artatamente racconta sempre un’altra storia, eludendo qualsiasi conflitto, che è sempre tra capitale e lavoro».
La copertina di Chiarelettere aggiunge, oltre al titolo, anche la notazione Il romanzo della fine del lavoro, notazione in realtà un po’ fuorviante perché non di romanzo si tratta, quanto di un faticoso reportage, frutto di incontri, lunghe camminate, alla ricerca di una forma che possa essere simile a quelle, oggi come mai sempre più urgenti, di scrittori come Luciano Bianciardi, Elio Vittorini (di cui non a casa viene citato Sardegna come un’infanzia) e Giuseppe Dessì.
Il romanzo che però più si respira tra le pagine di Ferracuti quale possibile primaria fonte di ispirazione, è Germinale di Emile Zola, citato anche dallo stesso Ferracuti come un modello. Al di là della vicinanza anche per il soggetto, è infatti facilmente ravvisabile nelle descrizioni di Ferracuti l’eco dell’epica rappresentazione dei minatori di Montsou dello scrittore francese, il romanzo di Zola riveste un ruolo anche politicamente provocatorio, perché il finale tragico del romanzo Germinale, è ciò che in quelle zone è accaduto davvero e non in anni troppo lontani.
Muovendosi attraverso il Sulcis, e particolarmente tra Carbonia e Iglesias, Ferracuti racconta del forte scontro tra il triste e desolato abbandono di paesi e miniere e la bellezza di una terra che guarda verso il mare, come a dire che è la natura quella che osserva le macerie dell’uomo e sopravvive a quelle rovine e agli scheletri di un lavoro che non esiste più.
Il racconto parte da lontano, dalla storia della nascita di quelle terre (per esempio Carbonia fu fondata dal fascismo, come centro di produzione di carbone), fino ai numeri impressionanti di oggi dove si è passati dai 15mila minatori dei primi decenni del Novecento all’attuale provincia più povera d’Europa con i suoi 30000 disoccupati su 130000 abitanti, con 40000 pensionati che molto spesso arrivano a quel traguardo dopo essere incorsi in malattie terribili come la silicosi.
I molti personaggi che incontra lo scrittore sono accomunati da una storia che, se non per piccole differenze ovvie, si ripete sempre uguale, in tutti gli stabilimenti, e consiste nel passaggio da un periodo felice di grande lavoro (ed è particolarmente significativo che gli ex-minatori definiscano come felice un lavoro centinaia di metri sotto terra, con stipendi bassi e rischi altissimi), ad una irrefrenabile caduta, che ogni volta presenta gli stessi sintomi prima della chiusura definitiva: la perdita di profitti, l’acquisto da parte di una multinazionale che illude i suoi lavoratori per poi abbandonare e chiudere l’azienda non appena i profitti calano, incurante delle famiglie e degli operai, in un periodo in cui forse fare questo è diventato troppo facile a causa della perdita di potere dei sindacati e del disinteresse della politica, presente, come dicono molti, solo nel momento in cui c’è in ballo un voto.
Negli ultimi decenni, il Sulcis rappresenta un luogo che dal punto di vista del lavoro ha subito solo sconfitte. Ma queste sconfitte, come illustra bene Ferracuti attraverso le sue conversazioni e le sue disamine, non si limitano a ledere solo quel particolare, e fondamentale, aspetto della vita, perché la perdita del lavoro ma, ancor di più, la scomparsa del lavoro, è foriera di sventure e disgrazie. E l’entità di queste sventure si vedono attraverso gli occhi degli intervistati: Ferracuti dialoga con Manlio, nato a Buggerru, paese in cui tutti vivevano grazie alla miniera, che si occupa adesso di divulgare il profondo abisso che gli abitanti stanno attraversando, incontra Claudio, un ex minatore che strenuamente vive ancora a Ingurtosu ed è uno dei sei abitanti (difficile non concordare con Ferracuti quando parlando di Ingurtoso e della sua onomatopea, dica come essa sia «inquietante», anche alla luce della sua etimologia «derivava da su gurturgiu, l’uccello gipeto, un avvoltoio che pare si aggirasse volteggiando per questa valle»), o Sandro, stoico ultimo minatore della Nuraxi Figus.
Con un afflato che ricorda Verga (quello del ciclo dei vinti – che però qui non può puntare «allo svilupparsi» – e anche quello, per ambientazione, di Rosso Malpelo), Ferracuti scava il profondo di questa sofferenza, incontrando ad esempio Raffaele Callia, responsabile del Servizio Studi e ricerche della Caritas regionale, che con la forza dei dati illustra, con tinte ancora più fosche, la situazione, con l’aumento dei casi di depressione e i tentativi di suicidio, l’aumento spropositato della povertà e, dato se possibile ancora più preoccupante, l’aumento di tumori e malattie (dal 2006 al 2013 tra Carloforte, Iglesias e Carbonia, si è passati da 1825 casi accertati a 3044).
Ferracuti sta dalla parte di questi vinti, che però conservano un carattere nello stesso tempo forte e modesto, conoscitori profondi della loro miseria e della totale assenza, in queste condizioni, di un qualsivoglia tentativo di risalita. Nell’introduzione Ferracuti cita uno stralcio di un’intervista di Furio Colombo a Pier Paolo Pasolini, l’ultima prima della sua uccisione, in cui lo scrittore dice: «Smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna». Proprio le parole di Pasolini hanno mosso l’animo di Ferracuti, nel tentativo di raccontare quello che è la realtà, in un reportage pesante e difficile per il suo contenuto, ma che rappresenta anche, e forse soprattutto, una forma di ribellione nei confronti del pensiero dominante, dello sterilestorytelling che racconta spesso una storia diversa in cui capitale e lavoro non esistono mai.
Fonte: minimaetmoralia.it
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