di Giuliano Battiston
Guardiamo le immagini del Promenade des Anglais di Nizza e pensiamo al Califfo. Leggiamo la biografia del presunto attentatore, il tunisino Mohammed Lahouaiej Bouhlel, e cerchiamo segni di adesione ideologica allo Stato islamico. I più, per prima cosa si chiedono se fosse musulmano o meno, come se l’arma usata non fosse un camion carico di armi, ma una religione. Dopo Nizza, sarà bene ammetterlo: che Abu Bakr al-Baghdadi abbia o meno a che fare con la strage poco importa. Ha già vinto. Almeno sul piano delle percezioni, quello che più conta in un conflitto che è asimmetrico e che si gioca – oltre che su fronti militari poco definiti e mutevoli – sul piano delle idee e della narrazione mediatica.
In primo luogo fuori dall’Europa.
Il fantasma del Califfo spunta ovunque. Più viene esorcizzato, più conquista posizioni nel nostro immaginario. La percezione del pericolo supera di gran lunga la sua portata reale, dicono le statistiche, che ricordano come il terrorismo mieta vittime in primo luogo fuori dall’Europa, ma gli europei, i francesi in testa, si sentono minacciati.
E ogni nuovo segnale, per quanto equivoco, genera subito una convinzione: dietro c’è la mano di Abu Bakr al-Baghadi. Paradigmatica, la reazione alla strage di Nizza: nessun elemento – nel momento in cui scriviamo – indica un legame certo tra l’attentato e la leadership dello Stato islamico; nessuna rivendicazione ufficiale è ancora arrivata dagli organi ufficiali del gruppo, solitamente solerti a intestarsi stragi organizzate, sollecitate o soltanto ispirate. Eppure l’accostamento appare naturale. Il Califfo ha vinto.
Tra gli obiettivi del suo gruppo, salito alla ribalta nell’estate del 2014 con l’annuncio del Califfato ma erede di una storia ben più lunga, c’è proprio questo: incutere timore ai nemici, farli sentire e mostrarli vulnerabili. L’Europa degli «infedeli» è un nemico. Lo ha ripetuto a più riprese il portavoce dell’Is, Abu Mohammed al-Adnani, che da anni invoca vendette per la hubris militare dell’Occidente, e che in un discorso del settembre 2014 aveva fatto esplicito riferimento all’uso di automobili come armi.
E lo ripetono gli organi di propaganda del gruppo, in primo luogo Dabiq, la rivista patinata in lingua inglese. L’Europa è un nemico e, dopo Parigi, Bruxelles, Istanbul, teme. Reagisce come gli strateghi del Califfo sperano: aumentando le misure di sicurezza, riducendo l’agibilità degli spazi pubblici, invocando lo stato di emergenza (prolungato in Francia per altri tre mesi), militarizzando la società e ribadendo l’opzione muscolare in Siria e Iraq, come ha voluto precisare il presidente Hollande.
Far crescere l’ostilità
L’altro successo del Califfo è evidente da tempo. Si rinnova ad ogni nuovo attentato, quando politici di tutti gli schieramenti chiedono ai cittadini europei di fede islamica attestati di fedeltà ai valori costituzionali: polarizzare le posizioni. Far crescere il sospetto reciproco, l’ostilità, il risentimento, la sfiducia, all’interno delle comunità islamiche e tra queste e il resto della società. Tracciare delle linee nette. Che distinguano, separino, dividano. Il particolare jihadismo salafita di cui si nutre lo Stato islamico ha fatto delle divisioni, della scomunica, della rivendicazione di assoluta unicità ed esclusività uno dei motori portanti di un progetto strategico che si muove su più fronti, con strumenti diversi.
Le cose sono chiare da tempo. Nel numero di febbraio 2014 di Dabiq viene messo nero su bianco che è essenziale fare in modo che «i musulmani che vivono in Occidente» si trovino costretti «tra due scelte», fare atto di apostasia o «migrare nello Stato islamico», sfuggendo alle persecuzioni dei governi crociati. É «la zona grigia», la zona delle identità meticce e della convivenza, che il Califfo vuole eliminare una volta per tutte. Per questo, guarda all’Europa e all’Occidente come un fronte importante.
Infedeli e statulità immaginaria
Che la strage di Nizza sia riconducibile allo Stato islamico o meno, rimane un fatto. Il Califfo ha cominciato a pianificare una campagna di attentati in Occidente già a partire dal 2013. Prima che venisse proclamato il Califfato, nell’estate successiva, e prima dell’inizio dei bombardamenti aerei guidati dagli Stati Uniti.
Questo vuol dire che il legame tra la pressione militare subita nei territori governati e l’ondata di attentanti internazionali è meno solido e diretto di quanto appaia a prima vista. Il territorio è importante, perché legittima la pretesa di «statualità» ed è fonte di profitti, ma gli strateghi di Abu Bakr al-Baghdadi hanno già dato prova, negli anni passati, di versatilità tattica.
Il solito portavoce del gruppo al-Adnani lo ha chiarito lo scorso maggio: «I crociati e i loro clienti apostati non si illudano». Lo Stato islamico non si sconfigge semplicemente «riconquistando Mosul, Sirte o Raqqa». Perché la vera sconfitta arriva quando si perde «la volontà e il desiderio di combattere».
Anche sotto questo aspetto, il Califfo ha vinto: è riuscito a inserire il suo marchio nel mercato del jihadismo contemporaneo. Lo ha reso il prodotto egemone, almeno per ora. Ha fornito un orizzonte, una causa, un attaccapanni ideologico sul quale chiunque può appendere il proprio cappello, la propria frustrazione, il proprio risentimento, il proprio desiderio di vendetta. Ed è nella condizione di potersi intestare ogni strage, purché compatibile con gli obiettivi del gruppo.
O di lasciare una zona d’ombra e di ambiguità, come accaduto per gli attentati all’aeroporto di Istanbul e a Medina, in Arabia Saudita, mai rivendicati. E, forse, con Nizza.
Fonte: il manifesto
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