di Richard Hyman
I progressisti britannici e nel resto d’Europa stanno ancora a interrogarsi su ciò che è accaduto. Il 23 giugno, con una partecipazione al voto del 72 per cento - di gran lunga superiore a quella delle ultime elezioni politiche – la scelta di lasciare l’Ue è prevalsa con il 52per cento, contro un 48 per cento, che si è invece espresso per restare. In altre parole, ha optato per la Brexit il 37 per cento degli elettori registrati. Nella politica britannica il ricorso ai referendum è stato tradizionalmente sporadico, ma è interessante notare come in quelli tenuti nel 1979, sulla devolution in Scozia e in Galles, fosse stato specificato che per validare il risultato della consultazione, oltre il 40 per cento dell’intero elettorato avrebbe dovuto votare a favore. Soglia che, evidentemente, non è stata raggiunta in questo caso.
Il referendum di giugno nasce come una manovra politica del primo ministro David Cameron dinanzi alla montante eurofobia del suo partito e alla crescente minaccia rappresentata dalla destra dello Ukip di Nigel Farage. La speranza per cui, con tale iniziativa, si potesse risolvere il conflitto all’interno del Partito conservatore, mantenendo una linea contigua alla sfida dello Ukip, si è rivelata un fatale errore di calcolo. L’impegno di tenere un referendum sull’Ue, assunto da Cameron prima delle elezioni del 2015, faceva affidamento sulla convinzione che egli avrebbe continuato a governare in coalizione coi liberal-democratici, che ne avrebbero stoppato l’idea. È accaduto invece che Cameron ha ottenuto la maggioranza assoluta, vedendosi così costretto a tenere fede alla sua promessa. Il suo tentativo di rinegoziare i termini del rapporto fra Regno Unito e Ue è stato per buona parte un insuccesso, ma ciò nondimeno – pragmaticamente – egli ha deciso di far campagna per mantenere l’adesione britannica all’Ue, insieme al suo ministro delle Finanze, George Osborne.
La maggioranza dei parlamentari Tories ha sostenuto la campagna per ilRemain, ma la base del partito si è schierata sul fronte opposto. Dopo aspri conflitti in seno al Governo, si è convenuto di consentire ai ministri di fare campagna per la Brexit, senza dover per questo abbandonare gli incarichi in seno all’esecutivo. La campagna ufficiale per il Leave è stata capeggiata dall’ex sindaco di Londra, Boris Johnson, tardivamente convertito alla Brexit, sulla base di quello che molti hanno considerato un cinico calcolo al fine di conquistare il consenso della base conservatrice alle prossime elezioni per la leadership del partito. La maggior parte dei tabloid di destra, soverchiante, ha fornito il suo sostegno acritico e incompetente alla Brexit, martellando sul tema dei rifugiati e degli immigrati.
Un’ampia maggioranza dei parlamentari laburisti si è opposta alla Brexit, ma conducendo una campagna separata da quella del Governo.Per molti, va detto, la scelta per rimanere è stata considerata alla stregua di un male minore, considerato il diffuso disagio prodotto dal trend neoliberista delle politiche dell’Ue. Molte formazioni minori dell’estrema sinistra hanno evocato questo trend come argomento a favore del Leave. La confederazione dei sindacati (Tuc) e la maggior parte dei suoi principali affiliati hanno dato un forte sostegno per la permanenza, con solo alcuni fra i maggiori sindacati degli impiegati nel pubblico impiego su una posizione neutrale. Solo pochi sindacati più piccoli, e specialmente quello dei ferrovieri (Rmt), hanno sostenuto la Brexit.
La campagna è stata caratterizzata da toni molto aspri e iperbolici.Cameron e Osborne hanno sottolineato il danno economico derivante dall’uscita. I fautori di quest’ultima, dal canto loro, hanno ridicolizzato questi appelli, liquidati come “progetto paura”, e rigettato gli avvertimenti a senso unico degli esperti economici, sostenendo che il sostegno all’Ue godesse del monopolio delle élites metropolitane. Si dà il caso che i leader del Leave, Johnson e Farage, siano stati educati nelle esclusive scuole private inglesi (come anche Cameron e Osborne), premiati ora nella posa di rappresentanti della gente comune.
La campagna del Leave è stata tutta in negativo, senza mai indicare cosa sarebbe veramente accaduto dopo la Brexit. Due sono stati gli argomenti dominanti. Il primo era che lasciando l’Ue la Gran Bretagna non sarebbe più stata soggetta alle richieste di libero movimento dei lavoratori, potendo in qualche modo mantenere l’accesso al mercato unico. Il secondo, relativo alla costosa burocrazia di “Bruxelles”; quello secondo cui dalla separazione il Paese avrebbe potuto risparmiare 350 milioni di sterline alla settimana, da poter destinare al servizio sanitario nazionale (Nhs). In realtà, il contributo del Regno Unito all’Ue, seguito allo sconto a suo tempo negoziato dalla Thatcher, è pari a 276 milioni di sterline, con una somma significativa che torna indietro attraverso fondi sociali e sussidi vari.
Molti commentatori hanno giustamente denunciato taluni risvolti assunti dalla campagna per il Leave, all’insegna di un “progetto odio”.Razzismo e xenofobia sono infatti stati una componente solo appena dissimulata negli argomenti a favore della Brexit, anche se il livello attuale di immigrazione netta è di gran lunga inferiore a quella dichiarata da molti sostenitori, e che molta immigrazione proviene da fuori dall’Ue. Gli immigrati sono stati incolpati di provocare disoccupazione, bassi salari, pressioni sul servizio sanitario e su scuole sovraffollate, sebbene questi problemi siano da attribuire all’austerity e al calo di investimenti. In totale malafede si è sostenuto che la Turchia fosse sul punto di entrare nell’Ue, e che la Gran Bretagna non avrebbe potuto impedirlo. Una tragica conseguenza di questo incitamento alla xenofobia è stato che Jo Cox, giovane parlamentare laburista dello Yorkshire, è stata colpita a morte da un razzista armato di pistola, a pochi giorni dal referendum. Si era sperato che ciò potesse almeno spostare l’opinione pubblica verso il campo del Remain, ma non è così che sono andate le cose.
Una nazione divisa
Lo scarto di meno del 4% fra i voti per il Leave e quelli per il Remain, evidenzia il dato di una nazione profondamente spaccata. Le divisioni hanno seguito faglie di ordine geografico, anagrafico e di classe. Diversamente che per le elezioni politiche, in questa occasione non vi sono stati exit poll, ma talune inferenze possono essere tratte sulla basa sia dei sondaggi pre-consultazione che dai risultati dettagliati a livello di distretti locali. A Londra il 60% dei votanti ha scelto di rimanere. In buona parte del resto dell’Inghilterra, e in Galles, ci sono state maggioranze, in vari casi ampie, a favore del Leave. Il sostegno alla Brexit è stato particolarmente alto in aree che hanno sofferto decenni di declino industriale e che hanno sopportato il peso dei tagli ai servizi pubblici: quella che è stata definita la parte del Paese dei “lasciati indietro”. In molte di queste regioni, lo Ukip era andato particolarmente bene nelle elezioni parlamentari del 2015 (pur non guadagnando nemmeno un seggio per via del sistema uninominale a turno secco).
Ciò ha rappresentato un segno di scollamento fra il Partito laburista e la classe operaia in tanti dei suoi tradizionali bastioni industriali. Di contro, il più alto sostegno alla permanenza, 62%, si è avuto in Scozia, dove il Partito nazionale scozzese (Snp), che aveva dilagato alle elezioni nel 2015, si è fortemente battuto per mantenere la Scozia nell’Ue, qualunque fosse stato il risultato nel resto del Paese. Una maggioranza del 56% per restare nella Ue si è registrata anche in Irlanda del Nord, per via del timore che un’uscita potesse innalzare nuove barriere con la Repubblica d’Irlanda a sud, compromettendo quel lungo e doloroso processo di riconciliazione fra le due comunità. La divisione per età è stata ancora più netta. Quasi tre quarti dei giovani con meno di 25 anni ha votato per restare, come ha fatto pure una piccola maggioranza fra quelli in età 25-50. Gli elettori più anziani, che sono anche di gran lunga più inclini a recarsi alle urne (e a registrarsi prima per il voto), si sono rivelati decisivi per il responso finale della consultazione.
Anche la collocazione di classe ha fatto segnare un importante fattore di divisione. Professionisti e occupati con alti livelli di scolarizzazione e qualificazione hanno in maggioranza optato per restare, laddove il caso opposto è stato quello di chi lavora in occupazioni manuali e impiegatizie di rango esecutivo, e di quanti posseggono solo una formazione di base. In questo caso, parteggiando per la permanenza, il Partito laburista, si è di fatto messo in contrasto con buona parte del suo tradizionale insediamento sociale.
Una indagine post-referendum ha chiesto al campione di esporre i motivi principali del proprio voto. Due terzi dei votanti a favore dell’Ue hanno citato l’economia, laddove pressoché nessuno del fronte avverso è ricorso a questo argomento. Oltre la metà degli elettori del Leave ha invece citato “la possibilità della Gran Bretagna di darsi le proprie leggi”, e un terzo ha evocato l’immigrazione e la libera circolazione dei lavoratori, appena sfiorati – invece – sul fronte del Remain.
Data la grande enfasi sull’immigrazione nella campagna del Leave risulta paradossale che esso abbia raccolto i maggiori consensi nelle aree col più basso numero di immigrati, e in particolare fra quelli giunti dall’Ue allargata. Londra, che dopo la Scozia ha raccolto il maggior numero di quanti erano intenzionati a rimanere, vanta anche la più alta percentuale di residenti nati fuori dal Regno Unito. Questa correlazione inversa non si è data ovunque. L’East Anglia ad esempio, che ha visto un ragguardevole flusso di immigrati dall’est Europa impiegati specialmente in agricoltura, ha fatto registrare una forte maggioranza per la Brexit. Ma le regioni più a nord, meno investite dalle migrazioni post-allargamento (per le quali la Gran Bretagna non impose un periodo di transizione), hanno riportato le maggiori percentuali per l’uscita.
A questo punto due sono le spiegazioni che possono essere avanzate, una socio-culturale e l’altra socio-economica. Si direbbe che la campagna per l’uscita abbia offerto una sponda al vasto scontento e allo spaesamento della classe operaia, in special modo fra quei “lasciati indietro” dalle trasformazioni economiche e sociali degli ultimi decenni. Alcuni osservatori hanno invece posto l’accento sul distintivo tratto “inglese” dell’identità nazionale. Con la creazione dei parlamenti autonomi in Scozia e Galles, come anche dell’Assemblea dell’Irlanda del Nord, l’Inghilterra è divenuta l’unica parte del Regno Unito – seppur la più vasta – a non avere un proprio livello regionale di rappresentanza politica. L’”inglesità” ha potuto di conseguenza diventare la base per un rigetto di politiche e istituzioni percepite come “aliene”. Sul piano dei simboli, si potrebbe notare la proliferazione di bandiere inglesi con la croce di San Giorgio sui finestrini delle auto durante i campionati europei di calcio e i cori intonati dai tifosi in maglia bianca, fra invocazione della Brexit e non rari scadimenti nel più becero razzismo. I sondaggi mostrano un collegamento stretto fra consapevolezza della propria “inglesità” e sostegno all’uscita dall’Ue: all’inizio del 2016, il 57% degli elettori che identificavano se stessi come inglesi sostenevano l’uscita, a fronte di un mero 35% di quelli che si riconoscevano come britannici.
La richiesta chiave della campagna per uscire, “riprendere il controllo” lontano da Bruxelles, ha raccolto una maggiore risonanza generale nell’Inghilterra non metropolitana. Londra si trova a sole due ore di treno da Bruxelles, ma a quattro dalla provincia meridionale del Tyneside, che al 62% ha votato per l’uscita. I politici di stanza a Londra che hanno sostenuto l’uscita sono stati visti come più vicini alle élites europee che non ai cittadini comuni delle province più sperdute del Paese. Si potrebbe ancora notare l’alta incidenza di voti per la Brexit in alcune zone operaie nel sud del Galles, malgrado il Galles abbia nell’insieme raccolto una percentuale di favorevoli a restare più alta che in buona parte dell’Inghilterra. In questo caso, e più in generale, i fattori socio-economici rappresentano indubbiamente una componente centrale dell’analisi. Il lungo trend alla de-industrializzazione, che aveva iniziato a erodere le tradizionali comunità operaie già negli anni 70, subì un’accelerazione sotto Margaret Thatcher, col suo attacco ai minatori. Molte località un tempo fieramente operaie, con dense reti di istituzioni comunitarie e forti legami coi sindacati e col Partito laburista, si sono trasformate in brughiere desolate. Nel complesso della Gran Bretagna, a partire dall’elezione della Thatcher nel 1979, la diseguaglianza è cresciuta rapidamente. Dagli anni 90 si è stabilizzata ma il Paese resta comunque fra quelli più disuguali d’Europa.
La povertà è cresciuta parallelamente con la diseguaglianza, e le misure di austerità hanno rimosso una buona parte delle vecchie reti della sicurezza sociale. Nessuna di esse può essere attribuita direttamente alle politiche dell’Ue, laddove molte delle aree depresse – che hanno massicciamente votato per la Brexit - hanno ricevuto consistenti risorse da parte dei fondi sociali dell’Ue. Ma “l’Europa” è stata con successo raffigurata come il capro espiatorio dello spaesamento e della rabbia dei perdenti dell’attuale trasformazione sociale ed economica, la cui disaffezione è stata efficacemente captata dai razzisti e dai demagoghi. Nei giorni a seguire il risultato del referendum, i reati legati all’odio razziale hanno fatto registrare una impennata. I progressisti, molti dei quali divenuti col tempo dei neo-liberisti soft, non sono stati in grado di offrire una persuasiva narrazione alternativa. Ma forse la stessa cosa si potrebbe dire anche di buona parte dell’Europa di oggi.
L’impatto immediato
A seguito dell’annuncio del risultato del referendum, il 24 giugno, il “Progetto paura” si è rivelato esagerato me non del tutto scorretto. Naturalmente il governo e la Banca d’Inghilterra avevano predisposto piani per l’immediato in caso di vittoria del Sì, e hanno tentato di mettere in sicurezza l’economia. La minaccia di Osborne, per il quale una vittoria del Leave avrebbe richiesto una manovra d’emergenza, con l’aumento delle tasse e ulteriori tagli alla spesa pubblica, è stata abbandonata. Di contro, la tassazione sulle imprese è stata ridotta e Osborne ha annunciato di aver cancellato il suo programma a tappe per rientrare dal debito pubblico. Se ciò potrà essere sufficiente a scongiurare una recessione non è ancora chiaro. Ciò che è già evidente è invece la brusca svalutazione della sterlina, scambiata a oltre 1,50$ (e oltre 1,40€) a fine 2015, caduta adesso sotto 1,30$ (e sotto 1,20€). E si prevede un ribasso ulteriore, cosicché mentre alcuni esportatori possono trarne beneficio, i costi per l’importazione di generi alimentari, beni di consumo e petrolio stanno già salendo a causa del peggioramento del tasso di cambio. Questo comporterà un probabile taglio superiore al 10% negli standard di vita.
L’esito del referendum ha provocato la crisi dei maggiori partiti politici. Cameron ha annunciato immediatamente le sue dimissioni già in autunno, precipitando un’amara elezione per il suo successore. Le regole del partito richiedono che i parlamentari Tories scelgano fra una coppia di candidati, da sottoporre successivamente a delle primarie fra gli iscritti al partito. Johnson, il cui ruolo nella fazione favorevole all’uscita, era stato ampiamente accreditato per un opa al ruolo di nuovo leader, ha ritirato la sua candidatura dopo essere stato denunciato da Michael Gove, ministro della Giustizia e già suo alleato nella campagna per la Brexit. Sarà Teresa May, ministro dell’Interno nel governo Cameron, a subentrargli ora nel ruolo di primo ministro, dopo che la sua principale rivale, Andrea Leadsom – fervente sostenitrice dell’uscita – è incorsa in una gaffe che l’ha tagliata fuori dalla corsa alla leadership. La May aveva tiepidamente sostenuto la permanenza, pur non impegnandosi attivamente nella campagna referendaria.
Di altro genere la crisi in cui si avviluppa il Partito laburista. Jeremy Corbyn – eletto segretario un anno fa sulla base di una piattaforma di sinistra e mai accettato dalla maggioranza dei deputati del partito – è stato fortemente criticato per aver tenuto un ruolo di basso profilo nella campagna referendaria. Alcuni hanno insinuato simpatizzasse in cuor suo coi sostenitori di estrema sinistra della Brexit, piuttosto influenti fra gli attivisti di Momentum, la formazione non ufficiale che si è mobilitata in nome della sua leadership. A distanza di alcuni giorni dall’esito del referendum, il gruppo parlamentare ha approvato una mozione di sfiducia verso il segretario, passando con un scarto di ben quattro a uno. Corbyn ha però rifiutato di dare le dimissioni, ma si prospetta una nuova contesa per la leadership che egli può ancora vincere. I principali leader sindacali stanno disperatamente tentando di raggiungere un compromesso. Corbyn ha contribuito a spostare il Labour lontano dall’eredità blairiana, ma manca di carisma e ha già commesso più di un errore tattico. Indubbiamente molti di quelli che ora lo sfidano apertamente gli sono sempre stati ostili, ma egli sembra aver perso anche qualche sostegno nella “sinistra soft” del partito. In ogni caso resta un problema, del quale egli difficilmente potrebbe essere ritenuto responsabile, e cioè quello di rappresentare un membro dell’intellighenzia londinese, in un partito sempre più guidato da laureati con occupazioni di prestigio e con pochi legami organici nelle roccaforti della classe operaia.
L’erosione del consenso elettorale, per lo più legato alla crescita dello Ukip, rappresenta una delle principali chiavi dietro al voto per la Brexit;non è chiaro se Corbyn o chiunque altro potenziale successore abbia una visione su come rovesciare questo trend. L’immediato dopo-voto ha infine visto una specie di contrattacco fra quelli che si proclamano il popolo del “48 per cento”, i quali ritengono che il voto per l’uscita abbia vinto sulla base di menzogne e inganni (argomento con cui molti che hanno votato per l’uscita, in effetti, paiono ora convenire). Molti di quelli il cui sostegno alla permanenza era stato blando vivono adesso un senso di perdita; la distruzione dei valori di tolleranza e solidarietà che una volta sembrava parte del carattere britannico, a fronte dell’ascesa di un paese più indurito e lacerato, con inquietanti coloriture di stampo fascistoide. Dopo una campagna improntata all’insegna di toni prevalentemente negativi, emerge ora la rivendicazione che l’idea di integrazione europea avesse in realtà un valore morale a pieno titolo.
Forse una parte del problema è che il concetto stesso di “UnioneEuropea”, adottato a Maastricht nel 1992, sia stato un atto di hybris da parte dei leader europei. Il termine Ue, potrebbe essere facilmente interpretato a significare un super-stato distante, calato dall’alto e molto burocratico. Il titolo precedente, “Comunità Europea”, implicava di contro una solidarietà fra popoli, volti a perseguire i loro interessi comuni. Questa possibilità di comunità è ciò che oggi molti britannici stanno disperatamente cercando di proteggere e preservare.
E ora?
Che succederà adesso? In Gran Bretagna il referendum non dispone di un chiaro statuto costituzionale. Pare che per attivare l’art. 50 del Trattato dell’Ue sia richiesto un voto del Parlamento. Ma molti parlamentari sono contrari alla Brexit, pur dichiarandosi rispettosi dell’esito referendario. Un possibile scenario è che, se l’art. 50 verrà invocato, una volta che i termini di un esito negoziato saranno chiariti, un nuovo referendum potrebbe essere tenuto per decidere se approvarlo o restare legati all’Ue. Veri negoziati potrebbe rivelarsi impossibili fino all’autunno 2017, dopo le elezioni in Francia e in Germania. Al momento nulla è chiaro.
È probabile che la Brexit conduca a una dissoluzione della Gran Bretagna. Nel settembre 2014, gli elettori scozzesi rigettarono l’indipendenza con un 55 a 45 per cento. Da allora, il Snp ha trionfato alle elezioni ed è molto probabile che chiederà un nuovo referendum per l’indipendenza che stavolta potrebbe vincere, con l’obiettivo di rimanere dentro all’Ue. Se poi la politica dell’Ue vorrà consentirlo rimane piuttosto incerto. Ma una eventuale indipendenza scozzese renderà di certo immensamente difficile, in futuro, la creazione di maggioranze politiche progressiste in ciò che resterà della Gran Bretagna. Anche le implicazioni per l’Irlanda del Nord appaiono molto serie. Dopo decenni di guerra sanguinosa, il conflitto era cessato grazie all’accordo del Venerdì di Pasqua del 1998. Come parte di quel processo, il confine con la Repubblica era stato virtualmente eliminato. La Brexit, che implica una ricostituzione di quel duro confine che separa il Nord dal Sud, può causare da un lato pesanti ripercussioni di carattere economico ma anche intensificare le richieste per una Irlanda unita.
Se la Brexit provocherà danni economici di lungo periodo non lo si può prevedere, ma i presagi non sono affatto incoraggianti. Un nuovo governo conservatore, ancora più a destra dell’attuale con Cameron e Osborne, potrebbe reagire accentuando l’austerità. E almeno uno dei due contendenti alla leadership ha già preannunciato la sua intenzione di rimuovere le tutele lavoristiche che il Paese ha adottato trasponendo la legislazione dell’Ue. Molti dei leader della campagna per il Leave – che forse neppure si aspettavano di vincere – hanno già ritrattato alcune delle aspettative e delle promesse fatte solo poche settimane prima. No, non ci sarà alcun extra di 350 milioni di sterline da destinare ora al Nhs. No, l’immigrazione non potrà essere arrestata attraverso un mero abbandono dell’Ue. Gli spaesati perdenti della working class, travolti dai mutamenti strutturali degli ultimi decenni, scopriranno di essere i principali perdenti anche a opera della Brexit. Per molti, la loro rabbia sfocerà probabilmente in un ulteriore smottamento a destra. Lo Ukip sarà indubbiamente pronto a blandire questa rabbia. Ciò che è certo è che la Gran Bretagna è divenuta un’isola più incattivita e insicura. Il dibattito sulle alternative all’appartenenza all’Ue è, per il momento, appena cominciato.
L’autore è professore emerito alla London School of Economic ed è un decano degli studi internazionali di relazioni industriali. Questo pezzo di analisi politica, sociale ed economica è stato scritto in esclusiva per “Rassegna”.
Traduzione di Salvo Leonardi
Fonte: Rassegna.it
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